__________________________
__________________________
I fogli trasversali
Dal maggio del 1975 la mia principale occupazione fu la redazione e la distribuzione di a/traverso. Raccoglievo gli articoli, battevo tutto con una vecchia Remington, componevo i titoli con caratteri strappati a qualche giornale, poi lo portavo in tipografia, andavo a prendere i pacchi con qualche amico, facevamo le spedizioni. Mettevo venti copie in una busta e trenta in un’altra, scrivevo gli indirizzi dei distributori locali. Poi andavo alla Calusca di Milano e Primo Moroni comprava un numero di riviste sufficiente per pagare la tipografia. Non li prendeva in conto vendita, come si dice. Pagava alla consegna. Così si poteva cominciare la preparazione del numero successivo. Questa mia sghemba attività mi metteva in contatto con decine di gruppetti sparpagliati in molte città del centro e del nord italiano. Gli autonomi desideranti, i creativi, i trasversali. Ragazzi che partecipavano qua e là alle prime forme di organizzazione di quello che chiamavamo il proletariato giovanile. Fratelli giovani degli studenti con la cravatta del ’68. Letture meno monotone di quelle dei fratelli maggiori.
Allen Ginsberg e Antonin Artaud, William Burroughs.
Una nuova tecnologia di stampa, la macchina offset rendeva possibile un processo di fotocomposizione che permetteva di costruire la pagina in maniera più libera di quanto concedesse la macchina tipografica tradizionale. Non c’erano dei caratteri da comporre, bastava appiccicare qualcosa su un pezzo di carta poi fotografare il collage, ed ecco la matrice per stampare duemila copie di un formato cinquanta per settanta.
Per la distribuzione di questi materiali selvaggi esisteva una distribuzione libraria che si chiamava “punti rossi”: centocinquanta librerie che facevano girare i materiali stampati e li vendevano per cento lire a copia, permettendo ai fanzinari di finanziare l’impresa senza doverci rimettere, qualche volta guadagnando anche qualche diecimila lire.
Secondo Primo Moroni, che aveva fatto a quell’epoca un po’ di conti, si può stimare che tra il 1975 e il 1977 sia uscito in Italia un giornale quotidiano che vendeva quotidianamente diverse migliaia di copie, fatto attraverso una fitta rete di fogli trasversali più o meno locali che rilanciavano spesso le stesse cose, oppure modulavano in varie forme sempre gli stessi concetti:
“la felicità è sovversiva quando si collettivizza
allargate l’area della coscienza
sabotiamo la società dello sfruttamento e della prestazione.”
DADA
A febbraio del ’76 radio alice aveva iniziato le trasmissioni. Una dozzina di redattori poeti, anarco-operaisti post-hippy o proto-punk si riunivano nella mansarda di un palazzo di via del Pratello per emettere ambigui segnali. L’eccitazione cresceva. Il compromesso storico era troppo stretto per contenere la conflittualità sociale che si manifestava nelle lotte di fabbrica, nelle occupazioni di case, negli episodi di autoriduzione.
Il comunismo è libero e felice dieci cento mille radio alice gridavano sotto la pioggia al concerto di Gianfranco Manfredi. Tribù di indiani metropolitani in treno si dirigevano verso Umbria jazz. Si accalcavano nudi in diecimila per saccheggiare un camion di polli congelati nella melma di Parco Lambro.
La colonna sonora Giovanna Marini e Philip Glass ma anche Neil Young Jimi Hendrix e Jefferson Airplane.
A febbraio esce un numero del foglio Il corrispondente operaio:
“Scrivete a bruciapelo. Mirate alla radice.”
Stavo scrivendo in quei mesi Chi ha ucciso Majakovski, il romanzo più noioso della storia umana però divertente (si può?).
Il futurismo e DADA erano i nostri riferimenti espliciti, ma non si trattava di un ritorno dell’avanguardia. L’avanguardia negli anni venti era stata un fenomeno essenzialmente elitario, ora si ripresentava come esperimento di massa. Grazie alle radio, grazie all’offset, grazie alla cassa di risonanza dei movimenti urbani ora diveniva possibile un esperimento di ironia di massa.
Ironia, sospensione della pesantezza semantica del mondo. Sospensione del significato che attribuiamo ai gesti, alle relazioni, alle forme. Sospensione della necessità. Il potere ha potere fin quando chi non ha potere lo prende sul serio.
Quando l’ironia diviene linguaggio di massa il potere perde il suo principale fondamento, perde autorevolezza e forza di imposizione.
Iniziava la dissidenza degli ironici dai dogmatici. Il mao-dadaismo segnalava la dissidenza dal fanatismo della politica. Il rifiuto del lavoro segnalava la dissidenza dal fanatismo dell’economia.
__________________________
__________________________
Un risotto
Il 7 dicembre del ’76 vado a Milano con altri due redattori di radio alice con un registratore. Venivamo su da via Turati insieme a gruppetti di ragazzi arrivati dalla periferia per raggiungere piazza della Scala dove si celebra l’odioso rito annuale della borghesia melodrammatica milanese. Alcuni poliziotti ci fermarono all’inizio di via Manzoni e ci portarono in questura dove restammo ammassati in un enorme stanzone con un centinaio di altri fermati. Arrivavano notizie della battaglia che infuriava nelle strade del centro, e io avevo tirato fuori il registratore e andavo in giro con Moreno e Claudio a intervistare ragazzi dell’hinterland che raccontavano le loro storie.
In quei giorni usciva un libretto intitolato Sarà un risotto che vi seppellirà, prodotto dalla casa editrice Squilibri, diretta da Dario Fiori. Raccontava dei centri del proletariato giovanile che si moltiplicavano nelle città di tutta la penisola.
A febbraio inizia l’occupazione universitaria con una serie di motivazioni difficili da ridursi a una piattaforma rivendicativa. Il tema del lavoro ricorre continuamente nella discussione universitario, molto più concretamente di quanto non accadesse nel ’68. Quelli che occupavano l’università erano studenti, di origine più o meno benestante, o anche studenti provenienti dalla classe operaia, ma studenti. Quelli che occupano l’università nel febbraio 1977 sono in larga parte lavoratori saltuari, gente che studia in maniera più frammentaria, più eclettica e meno sistematica.
Il rapporto con le forze politiche ufficiali era completamente deteriorato. Estraneità nei confronti della politica istituzionale, e un vero e proprio odio per gli stalino-riformisti, che ci apparivano a torto o a ragione come bigotti sacerdoti del lavoro salariato, nemici di ogni innovazione culturale.
Da quando il PCI aveva permesso che il Parlamento ratificasse la legge Reale, una legge che dava alla polizia licenza di uccidere, quel partito era diventato un nemico da emarginare in tutte le situazioni di movimento.
Certamente il Partito comunista rappresentava la maggioranza della classe operaia industriale. Ma il timore reverenziale che gli operai incutevano negli studenti nel ’68 si era mutato in un sentimento molto più sfumato. Non credevamo più che la classe operaia fosse un monolite da conquistare nella sua interezza. Nell’unità c’è una lotta e senza lotta non si dà unità.
Acquistava importanza nella discussione il concetto di composizione di classe, una definizione utile a diradare il carattere soggettivistico della nozione di classe operaia che circolava nella tradizione scolastica del marxismo.
La composizione di classe è processo di continuo mutamento dei rapporti di forza e delle forme culturali interne al corpo vivente del lavoro produttivo. Perciò nel corpo del lavoro produttivo è necessario distinguere soggettività diverse e talvolta anche divergenti, conflittuali, contraddittoria. Ci sono gli operai maschi e le operaie donne. Ci sono operai che si drogano, operai omosessuali, operai che scrivono poesie e operai che soffrono di depressione. Non hanno forse queste diverse caratteristiche un rilievo significativo anche nella formazione di una coscienza di classe? Non ci sono forse diverse coscienze di classe, che si stratificano, si elidono, si contrappongono?
__________________________
__________________________
La “questione giovanile”
La contraddizione tra giovani proletari e operai anziani emerse con chiarezza nell’ottobre del 1976 durante la lotta della Innocenti, una fabbrica automobilistica di Milano che adesso non esiste più (credo). I giovani erano entrati in fabbrica da poco, avevano poca voglia di farsi tirare il collo dal padrone, perciò organizzavano forme di autodifesa, assenteismo, autonomia. Arrivarono così dei licenziamenti, in risposta arrivarono gli scioperi. Ma gli operai anziani non partecipavano agli scioperi perché tutto sommato pensavano che i giovani assenteisti non avevano diritto a rivendicare il loro posto di lavoro. La “questione giovanile” non era più una questione puramente sociologica, diventava un elemento di ridefinizione delle prospettive del movimento operaio, diventava fattore di ricomposizione direttamente politica.
In un’intervista del 1970 Frank Zappa aveva fatto un’osservazione interessante: la cultura giovanile di cui il rock era l’espressione più visibile nasceva dal fatto che a partire dai primi anni ’60 i giovani, gli studenti cominciavano ad avere in tasca soldi sufficienti per comprare dischi libri e scegliere che film andare a vedere e che vestiti mettersi addosso, e questo dava loro la possibilità di influenza in maniera diretta la produzione culturale, le scelte di gusto.
In Italia i giovani erano i più colpiti dagli effetti della recessione esplosa nel ’73 in seguito all’aumento del prezzo del petrolio. La disoccupazione aveva tra i giovani una percentuale sempre più alta, e dilagavano forme di lavoro nero. La forma precaria del lavoro faceva allora la sua comparsa su larga scala. La risposta che veniva dai movimenti non era centrata sulla richiesta di occupazione, ma sulla diretta riappropriazione di reddito. Con questo non intendo riferirmi gli espropri proletari, che pure ci furono, ma in quantità limitata e puramente dimostrativa. Intendo riferirmi a comportamenti non illegali di rifiuto del consumismo o di condivisione . Le case collettive che fiorirono nelle città italiane in quegli anni erano esperienze di riduzione del consumo e innalzamento della qualità della vita. Il costo dell’affitto veniva condiviso, si faceva la spesa a turno, ci si scambiavano i vestiti e gli oggetti della vita quotidiana. Si lavorava di meno e si godeva di più. Non c’era affatto un’idea di sacrificio, di rinuncia, di povertà. Tutt’al contrario l’idea era quella che la ricchezza sta soprattutto nella disponibilità di tempo, nella possibilità di lavorare il minimo indispensabile per riprodurre la vita di comunità.
Cosa sia la ricchezza è un argomento interessante. Chi pensa che la ricchezza stia nell’accumulo di valore e di merci finisce per investire quantità crescenti del suo tempo di vita nel lavoro necessario ad accumulare.
Basta rilassarsi per rendersi conto del fatto che la ricchezza consiste nella socialità, nel tempo per poterla vivere, e nella condivisione dei beni necessari. Certamente perché un’idea simile possa funzionare occorre provare il piacere dell’incontro, del calore affettuoso del vivere comune.
E’ un tema misterioso questo: perché ci sono momenti in cui i corpi umani si attraggono e le anime si acquattano piacevolmente l’una accanto all’altra e periodi in cui l’empatia sembra dissolversi e gli esseri umani si chiudono nella loro solitaria disperazione? Quali sono i principi che governano le pesanti architetture della depressione e quali sono i principi che governano le leggere carezzevoli architetture della collettività felice?
__________________________
__________________________
Dall’ironia all’iperbole
Tra febbraio e marzo a Bologna e a Roma la situazione era particolarmente interessante, forse per la presenza di consistenti gruppetti di sabotatori semiotici (o autonomi creativo-desideranti o maodadaisti se preferite). Poche decine intendiamoci, ma abbastanza per trasformare le situazioni di movimento in happening dagli esiti sempre imprevedibili.
L’assemblea generale di Bologna convocata in permanenza dalla metà di febbraio era un teatro di follie a cui i militanti del PCI tentavano, con scarsi risultati, di opporre la loro ragionevolezza.
Alla fine del mese di febbraio decidemmo di passare dall’esperienza di A/traverso e di Zut, due fogli di agitazione ironica dadaista, ad una forma agitatoria di nuovo tipo. Ci riunimmo in una casa dalle parti della via Flaminia e in una riunione-delirio decidemmo di passare dall’ironia all’iperbole.
Foto di danzatori dell’Opera di Pechino che spiccano il volo piroettando verso il sole e parole altisonanti. Scrivevamo proclami con la consapevolezza di giocare con le parole come si gioca con il fuoco. E il fuoco stava divampando, effettivamente.
E sul fuoco gettammo migliaia di copie di una rivista che si chiamava con un titolo lunghissimo:
Finalmente il cielo è caduto sulla terra
La rivoluzione
È giusta è possibile è necessaria
Compagni guardate
La rivoluzione è probabile.
Quest’ultima frase, La rivoluzione è probabile, provocò risate a cascata quando qualcuno la pronunciò per la prima volta. Chi avrebbe potuto prendere sul serio simili profluvi di iperbolica immaginazione, se non qualche poliziotto o qualche pubblico ministero o qualche giornalista de L’Unità?
Il primo numero de La rivoluzione (lire 150) conteneva in prima pagina un proclama che inizia con le parole: “Sorprendente non è che gente rubi, ma che chi ha fame non rubi sempre. Sorprendente non è che operai facciano sciopero ma che chi è sfruttato non scioperi sempre.”
E continua così:
“Il partito dell’ordine dice ridurre gli sprechi, consegnare tutta la vita al capitale.
Il partito della divisione mira a contrapporre il movimento dei proletari degli studenti dei disoccupati al movimento degli operai. Cerca di mettere gli operai contro milioni di non garantiti. Ma non gli può riuscire. Per funzionare il riformiso deve assicurarsi il consenso della maggioranza degli operai occupati. Ma cosa garantisce oggi il riformismo agli operai occupati? Gli garantisce il salario? No, nel ’76 l’aumento dei prezzi da diminuito la capacità di acquisto del salario del 25%.
Gli garantisce l’orario di lavoro? No: l’accordo sindacati confindustria aumenta l’orario di lavoro di 556 ore all’anno (un’ora alla settimana) restituisce ai padroni la possibilità di spremere straordinari.
Gli garantisce le conquiste organizzative? No: il turno over riduce la forza lavoro occupata di centinaia di migliaia di unità. L’aumento dello straordinario permette ai padroni l’aumento della produzione senza aumentare gli organici. E intanto si preparano a smantellare interi settori di classe con la scusa della riconversione.
Che cazzo garantisce allora il partito dell’astensione? Siamo tutti non garantiti. E per questo il consenso operaio è sempre più ridotto, tende a scomparire. Lo vediamo in fabbrica dove un vero plebiscito operaio ha detto no alla politica dei sacrifici e all’accordo sindacale.
Nella pagina centrale del foglio c’è un manifesto dal titolo
IL LAVORO RENDE LIBERI E BELLI
E nell’ultima pagina sotto il titolo LAMAODADA
Leggiamo:
“Il linguaggio è la totalità dei fatti del mondo. Talora però non si tiene conto che alle volte i fatti slittano e il linguaggio resta fermo.l Il linguaggio del potere ottiene la sua validazione dalla violenza che riesce a eesercitare immobilizzando tensioni desideri bisogni. Talvolta succede che il linguaggio della speranza si faccia strada e allora si opera un mutamento di tutti i segni linguistici e questi segni diventano solo segnali della stupidità del potere:
“Lama è un Trombadori” questo è il primo risultato che il movimento ha raggiunto a Roma. Il potere unificato dalla sua stupidità. Nessuno Lama.
Un bel giorno per cominciare
Il secondo numero venne concepito e relazionato all’inizio di marzo. Le assemblee di movimento delle facoltà occupate avevano già deciso di organizzare per il 12 marzo una manifestazione nazionale a Roma.
Perciò pensammo bene di titolare il secondo numero de La rivoluzione con un titolo che a posteriori si rivelò pericoloso:
__________________________
l’edizione tedesca del (magnifico) libro di Klemens Gruber. L’edizione italiana, L’AVANGUARDIA INAUDITA,, è Costa e Nolan, 1977.
__________________________
12 MARZO UN BEL GIORNO PER COMINCIARE
Il testo che segue ha toni aggressivi rivolti contro tutti: contro il partito di unità proletaria, contro Avanguardia operaia, e anche contro l’autonomia operaia organizzata.
E’ un testo che risente della situazione di scontro sempre più acuto: c’è poca ironia, e qua e là c’è un linguaggio da caserma insurrezionalista.
La rottura con l’autonomia organizzata appare esplicita:
“L’atteggiamento di settori dell’Autonomia operaia organizzata (quella con l’A maiuscola), il comportamento da parata militare, la violenza contro i giovani e le donne, la logica di schieramento è il segno di un’incomprensione profonda del nuovo che il movimento esprime.”
Nell’ultima pagina c’è un Anatema isterico proveniente da Milano scritto con un tono delirante-ironico, che però venne segnalato dai giudici, nelle vicende giudiziarie che seguirono, come la prova della preparazione di chissà quali cataclismi.
“Milanobabilonia vive la sue ultime ore.
Nessuno sembra prestare fede a quello che tutti sappiamo: siamo spacciati. Guardate il cielo nero, tutti gli animali sono fuggiti.
I più informati scappano da Milanobabilonia con la scusa del week end: bravi scemi. E’ proprio quello che vogliono bande di topi di appartamento. Non vi resta che la scelta: o la borsa o la vita. Le case deserte saranno saccheggiate.
Noi isterici non ci faremo sorprendere nel sonno da questo momento siamo in allarme, mobilitati contro tutti. Da sabato notte vivremo nelle strade. Conosciamo la follia collettiva, la sua capacità di determinarsi. Noi ne siamo gli intimi.
Nessuno è in rado di prevedere le nostre intenzioni giacché siamo schizofrenici e parliamo con lingua biforcuta.
Milanobabilonia è una metropoli con micidiali grattacieli. Perché il Comune non ha ancora intrapreso la demolizione delle costruzione più pericolose, a cominciare dal Duomo con le sue guglie acuminate, il tagliente Pirellone e ogni altra arma impropria anche se camuffata da abitazione?
Lo faranno le nostre squadre di pianificazione territoriale: centinaia e centinaia di anarchitetti disoccupati sovrintenderanno i lavori di migliaia di demolitori avventizi. Quei giovani che avete ingiuriato chiamandoli fricchettoni sono già al lavoro: demoliranno Milano prima che Milano sia distrutta dal sisma.
Saremo vostri figli fino in fondo. Ci comporteremo come ci descrivete: saccheggiatori, checche isteriche, cannibali, drogati epilettici bruti.
La macchina della follia ormai è in moto. Tra qualche ora ci arriveranno le disposizioni ma qualunque cosa accada da sabato sera vivremo nelle strade, vigili e terrorizzati.
Anche il soffiare del vento, un vetro rotto, una frenata brusca, un grido isterico basterà per scatenare noi pazzi folli isterici ultimi veri metropolitani.”
Naturalmente l’uscita di questo foglio, che venne distribuito nei giorni della rivolta, e circolava sulle barricate di Bologna, non passò inosservata. Qualche giudice notò la coincidenza. Avevamo scritto 12 marzo un bel giorno per cominciare, ed effettivamente tra l’11 e il 12 marzo esplose una specie di santabarbara, una insurrezione ludico-tragica che costrinse la classe dirigente a rendersi conto della realtà: il compromesso storico non aveva funzionato e la politica dei sacrifici era una scelta inaccettabile destinata a provocare reazioni incontrollabili.
Nessuno di noi avrebbe mai potuto predisporre quello che accadde a Bologna tra l’11 e il 16 marzo o quello che accade a Roma il 12, o quello che accadde in molte altre città durante tutto quel mese.
Ma per coloro che sono istituzionalmente preposti a individuare i responsabili di questo e di quello, quel foglio che proclamava con qualche giorno di anticipo che il 12 marzo è un bel giorno per cominciare era la prova di un complotto.
Non c’era nessun complotto, ma ne avevamo lasciato tracce a profusione.
La rivoluzione è a metà è il titolo del terzo numero, uscito il 19 marzo.
I testi sono scritti in stato di evidente esaltazione allucinogena. Il gioco dell’iperbole consiste qui essenzialmente nel fingere una situazione di imminente governo rivoluzionario.
Si elaborano così programmi di transizione:
“esproprio generalizzato dei beni del clero e delle immobiliari.
Riduzione generale dell’orario di lavoro.
Aumento degli organici.
Trasformazione dell’organizzazione produttiva sotto il controllo operaio.”
In seconda pagina l’articolo intitolato Liberare l’intelligenza così recita:
“L’enorme quantità di intelligenza tecnico scientifica che il capitale comprime e spreca deve essere liberata. Fino a oggi il capitale ha usato la scienza la tecnica l’invenzione l’intelligenza per controllare il lavoro, per organizzare l’aumentod el profitto, per accrescere lo sfruttamento.
E’ possibile lavorare meno e produrre tutto il necessario se la forza invenzione è finalizzata a questo. E’ possibile sostituire il lavoro con le macchine, con la cibernetica e l’informatica applicata. E’ possibile organizzare scientificamente i servizi indispensabili liberando il tempo di vita dalla costrizione al lavoro.
Lavoro zero reddito intero
Tutta la produzione all’automazione
Tutto il potere al lavoro vivo
Tutto il lavoro al lavoro morto.
E accanto compare una poesia sotto il titolo
Il didietro del movimento
“ti piace un cazzo che ti entra dolcemente nell’ano
O una carezza della mamma?
Ti piace farti leccare il culo fin dentro
O la pesca subacquea?
Ti piace farti farti morsicare i capezzoli fino a urlare
O una zuppa inglese?
Ti piace un bel corpo muscoloso
O una lunga doccia calda?
Ti piace un cazzo enorme
O un bel pezzo di musica?
Ti piace essere palpato da un fusto
O leggere Linus?
Ti piace far scorrere in bocca tutti e due i testicoli
O una gita autunnale?
Ti piace lo sperma allo schizzo o un mazzo di viole?
Ti piace Antonio, Giacomo, Fausto, Nino, Valerio
O la corazzata Potemkin?
Ti piace farti inculare ripetutamente fino al pelo
O prendere il sole?
Ti piace lo sperma dolce
O quello pungente?
Ti piace un bel corpo di un calciatore
O due bei corpi di nuotatori?
Ti piace un dito nel culo
O ti piace tre dita nel culo?
Ti piace mettere in bocca tutti e due i coglioni
O ti piace prima quello destro?
Ti piace farti frustare
O ti piace farti leccare i segni?
Ti piace truccarti
O ti piace l’evoluzione della specie?
Preferisci farti inculare da un borghese
O preferisci farti inculare da un proletario?
Ti piace all’improvviso
O ti piace preparato?
Ti piace sempre
O ti piace continuamente
Ti piace con foga
O ti piace senza passione?
Ti piace duro
O ti piace con tenerezza
Ti piace che preme
o ti piace contro?
Poi il quinto e ultimo numero esce a giugno con un titolo indimenticabile:
LA RIVOLUZIONE E’ FINITA ABBIAMO VINTO
Quella frase non era soltanto una maniera per continuare il gioco, ma l’inizio di una riflessione sull’esito delle lotte di tutti quegli anni, sulla vittoria che il movimento aveva effettivamente conseguito: il movimento aveva costretto il capitale a una ristrutturazione della produzione che avrebbe occupato gli anni successivi, e aveva messo in moto enormi energie innovative, creative, tecnologiche.