Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di una via di fuga individuale.
Ma è forse sufficiente ricordare la stizza con cui un uomo di potere come Cicerone osservava, ai suoi tempi, il diffondersi di simili comunità: «hanno occupato tutta l'Italia», dice, come se si trattasse di un esercito nemico. È in realtà una potenza non-belligerante, una potenza che si afferma proprio e soltanto perché non prende parte all'agone, perché si sottrae alla lotta, facendo valere nient'altro che un certo modo di vivere.
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ISTUBALZ 2021
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È facile constatare l'attuale assenza (in Italia, in Europa, nel mondo
occidentale) di organizzazioni politiche autonome.
Esistono, certo, sporadiche aggregazioni che intervengono su questo o quel problema (la crisi climatica, la guerra a Gaza), ma non movimenti consolidati, capaci di resistere al regime economico, politico ed esistenziale dominante. Anche la ragione di tale assenza non è forse così difficile da individuare. Il fatto, per restare all'Italia, è che con la fine degli anni Settanta non si è chiuso soltanto un ciclo di lotte, ma si è rapidamente dissolta anche la convinzione che esistesse e che fosse praticabile un modo di vivere, di convivere e di organizzare la produzione alternativo a quello in vigore. Che questa alternativa – comunista, per chiamare le cose con il loro nome – fosse più o meno illusoria (per la sua intrinseca astrattezza oppure per la sua impotenza o, al contrario, per la sua mancanza di radicalità) è meno rilevante del fatto che fosse comunque ampiamente condivisa.
D'altra parte, con l'inizio degli anni Ottanta il regime liberale si è profondamente ristrutturato, cambiando decisamente il volto delle nostre società e delle nostre stesse vite. L'imporsi dei dispositivi neoliberali ha dato nuova consistenza alle democrazie occidentali, non solo offrendo al profitto terreni di conquista «interni» (la sanità, le telecomunicazioni etc.), ma trasformando alla radice il rapporto tra il cittadino e la sua occupazione: la logica del capitale umano ha fatto sì che ciascuno iniziasse a concepire la propria stessa vita come una materia da modellare senza sosta, al fine di adeguarsi alle esigenze del mercato del lavoro. Operando in assenza di resistenza, il neoliberalismo ha plasmato il tessuto sociale in modo da rendere non solo marginale, ma al limite quasi del tutto impensabile, qualunque iniziativa che non fosse fondata sull'investimento individuale nel campo della concorrenza.
In questa condizione, le classi dominanti hanno avuto buon gioco nel rendersi sempre più indipendenti da ogni controllo sociale, da qualsivoglia espressione di sovranità popolare (che non fossero i riti di un giornalismo e di una politica completamente asserviti). E in questo modo sono tornati alla ribalta i mai sopiti schemi dell'imperialismo ottocentesco, con i suoi cruenti corollari di razzie e guerre.
2.
A proposito dei dispositivi neoliberali, le analisi abbozzate da Michel Foucault quasi mezzo secolo fa erano già sufficientemente chiare almeno sul punto decisivo: al fine di ottenere la più ampia liberalizzazione possibile del mercato del lavoro era necessario costruire e organizzare un individualismo di massa, dato che l'adesione al nuovo sistema sociale non è in alcun modo spontanea, dato cioè che l'individualismo non è affatto un dato di natura, bensì un prodotto sociale (cfr. Foucault 2005). È dunque attraverso una serie di imposizioni dall'alto, atte a smontare ogni residua istanza di socializzazione e a isolare ogni individuo di fronte al mercato del lavoro, che si produce infine l'homo oeconomicus che conosciamo (cfr. De Carolis 2017). Negli ultimi quarant'anni le società occidentali hanno subito un'azione (tanto silenziosa quanto efficace) di pedagogia e di ortopedia sociale che ha mutato alla radice i nostri modi di essere, trasformandoci effettivamente in individui isolati.
Senza entrare nei dettagli di questi processi, il loro risultato più consistente riguarda l'appiattimento della vita di ognuno sulle pratiche atomizzate del lavoro e del consumo. Non possiamo più negare che ormai esista davvero un modo di vita occidentale, che non è però quello delle nostre «tradizioni» o delle nostre «libertà», e ancor meno quello dei nostri «valori» democratici, ma che consiste in uno stile ben peculiare, per non dire bizzarro, fondato sul continuo adattamento al mutare delle esigenze produttive e del consumo. Rispetto a ciò che in passato si credeva fosse uno stile o una forma di vita, si direbbe che attualmente la regola, la forma, impone agli individui occidentali la paradossale impossibilità di aderire ad una qualunque forma. Rovesciando il senso di un verso neoavanguardistico, potremmo dire che il nostro stile è ormai di non avere stile.
Il più importante forse dei principi neoliberali – che non è solo un principio, ma anche una regola di governo, a cui dovremmo opporre dunque un principio inverso, da cui dedurre una serie di pratiche di opposizione e di ricostruzione sociale – venne formulato dalla signora Thatcher quando disse che la società non esiste, ma esistono soltanto gli individui e le loro famiglie. Naturalmente, per lei questo non significava che la ricchezza della nazione fosse indifferente, ma voleva dire che, per perseguirla nel modo più efficace, era necessario che ognuno considerasse solo il proprio interesse e quello della propria famiglia, facendolo valere nel quadro della più spietata concorrenza.
Di fronte a questo effettivo stravolgimento della natura delle cose, dovremmo affermare con altrettanta radicalità che gli esseri umani esistono solo collettivamente, ma soprattutto che pensarsi e viversi come meri individui, al più «confortati» dalla famiglia, è pensarsi e viversi come condannati alla solitudine, alla lotta perpetua e, in fondo, alla tristezza più radicale. Dovremmo affermare, insomma, che solo una vita comune esiste e vale la pena di essere vissuta.
Quest'ultima tesi potrebbe apparire una petizione di principio, se non si considerasse il fatto, ormai ampiamente attestato, per cui l'isolamento e la concorrenza, elevati negli ultimi quarant'anni a principi-guida delle nostre società, hanno portato con sé la diffusione epidemica di una sindrome di carattere depressivo (cfr. Berardi 2023). Del resto, è sufficiente ricordare i classici, e in particolare la dottrina delle passioni di Spinoza, per sapere che un individuo isolato e in perenne competizione con gli altri non può che essere un individuo inetto, inerme e triste. Un tale individuo, che tende a non riconoscere alcunché di comune, è in costante disaccordo non solo con gli altri, ma in primo luogo con se stesso. È schiavo della paura, più ancora che della speranza. È desolato e pertanto intimamente impotente.
Ne segue che una società fondata da individui isolati non sarà più affatto una società (ed è proprio questo, del resto, il risultato che intendeva conseguire Margareth Thatcher: distruggere la società), ma un aggregato discorde, facilmente assoggettabile al governo dalle forze che di volta in volta vi si applicano.
Per questo, chi volesse contrastare l'attuale stato delle cose dovrebbe innanzitutto adoperarsi a ricostruire un tessuto di percezioni comuni, partendo dalla consapevolezza che la forza degli esseri umani consiste esclusivamente nel loro essere in comune, nella loro cooperazione.
Ma è esattamente su questo punto che emerge la novità della situazione attuale.
La tradizione marxista ha costruito uno schema interpretativo di grande impatto, innanzitutto riconoscendo, proprio rispetto all'intensificazione della cooperazione sociale, il carattere rivoluzionario del capitalismo.
Nelle antiche comunità patriarcali e feudali, in cui la produzione di beni in sovrappiù rispetto alla mera sopravvivenza era legata all'esistenza di rapporti di dipendenza personale, cioè all'esistenza di un potere politico esteriore alla produzione stessa, la produttività umana si sviluppava in maniera ristretta e isolata. È solo con il capitalismo, con la generalizzazione del valore di scambio, quando il comando sulla produzione è diventato immanente, che si è realizzato «un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità» (Marx 1997, p. 99). In breve, il capitalismo ha accresciuto la produttività umana, producendo una sorta di società globale, nella quale ogni individuo dipende da ogni altro per la soddisfazione dei propri bisogni. Agli occhi di Marx, questo sarebbe il grande merito della rivoluzione capitalistica, che ha creato le condizioni di un passaggio ulteriore, nel quale al nesso solo materiale che lega gli individui nella società della produzione e dello scambio di merci può subentrare l'appropriazione collettiva della produttività sociale, cioè «il libero scambio tra individui associati sulla base dell'appropriazione e del controllo comune dei mezzi di produzione» (ivi, p.
100).
Sappiamo come quest'ultimo passaggio si sia storicamente compiuto: non con l'avvento di una nuova società, basata sull'associazione dei lavoratori, bensì, da un lato, con la nascita di un capitalismo di stato di natura autoritaria, dall'altro con lo sviluppo di un capitalismo monopolistico e finanziario di natura oligarchica. In entrambi i casi, l'evoluzione del processo ha dato luogo alla creazione di grandi apparati tesi a governare i flussi di capitale e di beni, oltre che a disciplinare l'organizzazione del lavoro.
Per lo più si preferisce addebitare tali esiti alle contingenze storiche e politiche. Ma in tal modo si sottovaluta un dato di fondo, e cioè che il capitalismo non si è limitato a sfruttare la cooperazione sociale del «lavoro vivo», ma l'ha creata e ha continuato a costituire la sua stessa condizione di esistenza. Come Marx riconosce con lucidità (anche se poi non sembra voler trarre, da tale riconoscimento, le conseguenze ultime), «di fronte al contadino o all'artigiano indipendenti, non è la cooperazione capitalistica che si presenta come una forma storica particolare della cooperazione, ma è proprio la cooperazione di per sé che si presenta come una forma storica peculiare del processo di produzione capitalistico, la quale lo distingue specificamente» (Marx 1997-2, I, 2.4.).
Detto in maniera più esplicita: le forze produttive non si sarebbero mai sviluppate sino a raggiungere i livelli della produzione capitalistica, senza l'espropriazione originaria dei mezzi di sussistenza e senza l'organizzazione del lavoro imposta dal capitale – come testimonia, concretamente, la storia dei lavoratori delle colonie, i quali appena ne avevano la possibilità si sottraevano al lavoro salariato per tornare a essere artigiani indipendenti o contadini (cfr. Marx 1997-2, I, 25).
Ne consegue che non si può volere la trasformazione del processo lavorativo in processo sociale, senza accettare, al contempo, la condizione che l'ha resa possibile, cioè l'esistenza del capitale.
Si può sempre dire, certo, che è il lavoro vivo, e non il capitale, a produrre valore, ma non sipuò dimenticare che quella «vitalità» del lavoro non esisterebbe senza il dispotismo del capitale (o di uno stato che funzioni come suo analogo). Si tolga al lavoro vivo la disciplina e il controllo imposti dall'esterno e si vedrà dissolversi la stessa organizzazione che è condizione della sovra- produttività di quel lavoro. Si privi il lavoro vivo del comando del capitale (o di uno stato capitalista) e si dissolverà la stessa società del capitale (come dice John Holloway: «la crisi del lavoro astratto è anche la crisi della sintesi sociale fondata sul lavoro astratto»: Holloway, 2010, p. 207). Questo significa anche che una lotta anti-capitalista non può pretendere di essere, come si diceva un tempo tra le file operaiste, «dentro e contro» la società del capitale – almeno se questo significa credere di poter preservare l'organizzazione del lavoro vivo, facendo a meno del dominio del capitale.
Un'ipotesi del genere o sfocia nuovamente nella soluzione di un capitalismo di stato o è puramente e semplicemente illusoria (se pretende di essere un'ipotesi anti-capitalista). Il «dentro e contro» ha senso solo nel caso in cui la lotta venga intesa nel senso sindacale del termine, cioè come lotta per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori entro le condizioni date (cioè a condizione di conservare l'organizzazione capitalistica del lavoro e la società del capitale). In breve, essere anti-capitalisti non può significare soltanto essere contro il dispotismo del capitale, ma implica necessariamente di essere contro la sua organizzazione del lavoro e, per questo, contro la formazione sociale che ne deriva. È indubbiamente un prezzo alto da pagare, se si considera che l'incremento della produttività umana, in regime capitalistico, ha dato luogo a un miglioramento delle condizioni di vita di una parte almeno della popolazione mondiale. Ma dobbiamo analizzare con attenzione questo miglioramento, almeno per due ragioni: innanzitutto, per discernere quanto di esso sia effettivamente dovuto all'organizzazione capitalistica del lavoro e quanto sia invece (almeno relativamente) indipendente da essa; e, in secondo luogo, per mettere sull'altro piatto della bilancia gli arrettramenti e i disastri che non possono non andare assieme a quel miglioramento.
La prima questione è indubbiamente assai complessa, perché concerne, in particolare, i rapporti tra evoluzione scientifica, sviluppo tecnologico e organizzazione produttiva. Non è certo questo il luogo per elaborarla analiticamente, né del resto avrei gli strumenti per farlo, ma si può forse dire, almeno in linea generale, che se lo sviluppo tecnico e scientifico è avvenuto storicamente sulla base della società del capitale, non sembrano esserci ragioni di principio per cui un'altra formazione sociale implicherebbe di necessità un arretramento delle capacità cognitive e tecniche delle società umane. Nel migliore dei casi, a mutare sarebbero probabilmente i principi in ragione dei quali si deciderebbero le direzioni della ricerca, nonché gli scopi e i limiti delle applicazioni di quest'ultima (vedi l'esempio di Braudel circa l'uso della polvere da sparo in Cina: Braudel 2006). E comunque, va sempre tenuto in considerazione che l'illusione più difficile da scalfire è quella che ci fa credere che la nostra6 maniera di vivere sia essenzialmente diversa e superiore rispetto a quella dei simili che ci hanno preceduti nei secoli. Forse lo è solo per il fatto che nel frattempo abbiamo sterilizzato siano alla desertificazione i luoghi nei quali ci troviamo a vivere.
La seconda questione riguarda ancora più da vicino la riflessione su come vogliamo vivere. Da una parte, sappiamo che alla crescita del relativo benessere ha corrisposto l'approfondirsi dell'abisso economico e politico tra la massa dei lavoratori e i pochi che hanno la potenza per estrarre valore dalla cooperazione sociale e per governare le società capitalistiche (cfr. Panzieri 1976). Questo stato di cose ha prodotto non solo una situazione politica francamente oligarchica, nella quale la maggioranza dei cittadini è espropriata della capacità di decidere circa la propria vita e il proprio futuro, e nella quale a fare la storia sono gli interessi di pochi grandi gruppi economico-finanziari, ma anche e soprattutto una sottomissione illimitata della forza-lavoro alle logiche del mercato. E non si tratta, di nuovo, di un problema di potere, ma di un problema ben più grave, che concerne la vita stessa dei lavoratori, ridotta a variabile dipendente del mercato del lavoro.
Non è un caso se, negli ultimi decenni, assistiamo al crescere di una protesta silenziosa contro i modi di esistenza a cui dà luogo la cooperazione capitalistica.
L'ipotesi che sembra farsi strada nell'intelligenza collettiva non è, allora, quella di una politica che miri al controllo comune della produzione di ricchezza in una società capitalistica, ma quella di una disgregazione degli stessi modi di produzione capitalistici, realizzata attraverso una ricomposizione sociale fondata sull'acquisizione di forme di vita autonome. Ciò che conta, sembra, è di riappropriarsi della possibilità di vivere una vita che abbia una sua propria forma, una sua intrinseca ragion d'essere – e non una vita che si vive in funzione delle attività dettate di volta in volta dal mercato del lavoro.
Appare sempre più evidente, del resto, che ormai gran parte della produzione, e dunque del lavoro, non ha più la funzione di soddisfare bisogni crescenti, ma solo quella di perpetuare la sudditanza delle classi lavoratrici. Si lavora perché si è costretti alla sopravvivenza, senza più neppure la convinzione edificante che il proprio sacrificio abbia un valore dal punto di vista della collettività. Per questo, si ha la percezione che disertare la cooperazione produttiva, insomma rifiutare il lavoro, sia non solo una via di fuga auspicabile per sé e per la propria esistenza, ma anche un atto socialmente e politicamente legittimo. Del resto, disertare la società del capitale non significa certo disertare la società tout court. Proprio al contrario, quella diserzione costituisce forse l'unica via che consenta la nascita di relazioni di cooperazione alternative.
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immagine elaborata da un programma generativo
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3.
Dal punto di vista antropologico, il neoliberalismo non ha fatto che radicalizzare le regole di fondo della formazione sociale capitalistica. Ha elevato a sistema di governo l'incentivazione di alcune caratteristiche umane fondamentali, in particolare il desiderio e l'azione, con la condizione di mancanza e frustrazione che definisce l'uno e l'altra, ma anche con il risultato di un potenziamento formidabile di talune capacità della specie umana.
Basta aver frequentato per qualche tempo una grande città occidentale per sapere che lì tutti sono sempre indaffarati, tutti hanno sempre fretta, tutti sono costantemente mobilitati in vista di qualcosa.
La grande macchina sociale metropolitana si nutre di questa energia e la moltiplica chiedendo a ognuno di fare sempre di più. Anche al di là degli effetti collaterali di un tale genere di vita, la questione è se in questo processo non abbiamo sacrificato troppo di noi stessi: quella parte di noi stessi che ha a che fare non con il desiderio, bensì con il piacere, non con l'azione, bensì con il pensiero.
Alcuni potranno ritenere che criticare la formazione sociale capitalistica al livello dei suoi principi e dei suoi modi di vita significhi procedere quantomeno astrattamente, se non addirittura con l'ingenuità dell'anima bella. Ma credo che sia esattamente la mancanza di una riflessione svolta a questo livello, ciò che ha reso sterili molte delle agitazioni politiche degli ultimi decenni.
Come dice Musil riferendosi a quello che chiama «l'uomo dei fatti», ovvero al capitalista, «se si vuole essere suo avversario, la cosa più importante è determinare bene i termini del dissenso con lui» (Musil 2014, p. 97).
Il difficile compito che si impone a chiunque non intenda semplicemente adeguarsi a questo stato di cose è, innanzitutto, di ripensare quali siano i caratteri di una forma di vita auspicabile. Più precisamente (visto che non si tratta di operare nel vuoto di qualche astrazione), il compito consiste nell'affermare non solo ciò che non siamo e ciò che non vogliamo, ma soprattutto ciò che, nonostante tutto, ancora siamo e vogliamo. Con questo intendo dire che dobbiamo far valere le esigenze imprescrittibili che continuano a esistere tra la cenere delle nostre vite.
Per esempio, tornare a nutrire la convinzione che mai nessuna guerra viene fatta per noi, nel nostro interesse. È un esempio elementare, certo, ma implica già la consapevolezza del fatto che dobbiamo separarci dai principi che governano il senso dell'esistenza nelle nostre società, dobbiamo togliere il nostro consenso al regime (di vita e non solo economico e politico) dominante, tornando a consolidare l'immagine di una vita che si vive altrimenti.
In un passaggio dell'Uomo senza qualità si può leggere, a questo proposito, che quando l'uomo agisce ha bisogno «di un sentimento che possa essere neutralizzato», e questo accade quando inseriamo ciò che sentiamo «nell'immagine della realtà». Ma si dà anche la possibilità di seguire «le vie contrarie, quelle dell'estasi», cioè «deve esserci in noi anche la possibilità di rovesciare il nostro modo di sentire, e di vivere altrimenti il nostro mondo» (Musil 1992, vol. 2, p. 736). Da questa possibilità, da questo altro stato del sentimento (opposto alla tendenza che governa il desiderio e l'azione dell'uomo dei fatti), Musil fa seguire niente di meno che la possibilità di una «società estatica» (ivi, p. 906), cioè appunto la possibilità di una società che non sia governata dall'impulso appetitivo, ma dal suo inverso: il non-appetitivo. «In ciascuno di noi infatti c'è fame, e [allora ciascuno] si comporta come una bestia feroce; e non c'è fame, bensì qualcosa che, ignaro della cupidigia e della sazietà, matura come un grappolo d'uva nel sole autunnale» (ivi, p. 783). Le nostre società tendono a sviluppare oltre i suoi limiti sopportabili l'impulso appetitivo, rendendoci costantemente affamati, ma così facendo mutilano gli esseri umani di quella che è forse la loro parte migliore, quella parte che fra l'altro ha dato origine al pensiero.
Il compito di una politica a venire è allora quello di costruire le condizioni di una società estatica, favorendo lo sviluppo delle nostre facoltà non-appetitive.
Del resto, che una politica di questo genere trovi la sua condizione di possibilità in qualcosa che ha a che fare con il sentimento e con la sensibilità, era già ben chiaro al giovane Marx, quando nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 spiegava che, con l'elevazione della proprietà privata a principio ultimo della natura umana, è accaduto che «al posto di tutti i sensi fisici e spirituali è subentrata la semplice alienazione di tutti questi sensi, il senso dell'avere» (Marx 2004, p. 112). Di conseguenza, «la soppressione della proprietà privata rappresenta la completa emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi umani» (ibidem).
Quanto Marx dice a proposito della proprietà privata e del senso esclusivo dell'avere va letteralmente nella medesima direzione indicata da Musil. La potenza sviluppata dal senso del possesso, dell'acquisizione, della conquista, è anche, immancabilmente, un'alienazione di tutti gli altri sensi, e in particolare di quel piacere che si produce pensando, ovvero di quel piacere che deriva dalla mera contemplazione delle cose comuni, con le loro forme e le loro leggi, del piacere che è proprio della vita della mente.
4.
Abbiamo forse dimenticato, presi come siamo nelle maglie della concorrenza, che il pensiero, la contemplazione, l'estasi, il non-appetitivo e l'inappropriabile possono costituire una forma di vita. Si dirà, probabilmente, che per quanto questa possa forse essere una forma di vita, certo si tratta di una forma di vita impotente, incapace di lottare efficacemente contro le forze che oggi governano il mondo e che ne impediscono l'espressione. Ma così dicendo non si fa che conservare la logica propria del nemico. Dal punto di vista di questa logica, la potenza del pensiero è certamente inerme. Eppure ha dalla sua una qualche serena ostinazione. Forse addirittura una certa inamovibilità.
Una volta, infatti, che vengano percepiti con chiarezza non soltanto i disastri (esistenziali, oltre che politici, ecologici etc.) dei principi con i quali vengono governate le nostre società, ma soprattutto la forza, la serenità e la gioia che caratterizzano una forma di vita non-appetitiva, a nessun prezzo si accetterà di distaccarsene.
Le nostre abitudini intellettuali, in ogni caso, suggerirebbero che abbiamo bisogno di un'organizzazione capace di rendere egemone questa forma di vita. Ma non è appunto questa la strategia giusta. Esiste un grande modello antico che forse può suggerirci un'altra via (cfr. Godani 2019).
Una delle più note massime epicuree dice: «vivi nascosto», cioè non partecipare alla vita politica, disertala, e tieniti alla larga dalle contese per il potere, dagli onori, dalla ricchezza. In concreto, per gli epicurei questo voleva dire costruire delle piccole comunità autonome, ai margini delle città, nelle quali si praticasse una forma di vita aliena alle regole che dominavano la città. Una forma di vita non-appetitiva.
Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di una via di fuga individuale. Ma è forse sufficiente ricordare la stizza con cui un uomo di potere come Cicerone osservava, ai suoi tempi, il diffondersi di simili comunità: «hanno occupato tutta l'Italia», dice, come se si trattasse di un esercito nemico. È in realtà una potenza non-belligerante, una potenza che si afferma proprio e soltanto perché non prende parte all'agone, perché si sottrae alla lotta, facendo valere nient'altro che un certo modo di vivere.10
BIBLIOGRAFIA
Berardi 2023: Franco Berardi «Bifo», Disertate, Timeo.
Braudel 2006: Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo,
Einaudi Torino.
De Carolis 2017: Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del
neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet, Macerata.
Foucault 2005: Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de
France (1978-1979), Feltrinelli, Milano.
Godani 2019: Paolo Godani, Sul piacere che manca. Etica del desiderio e
spirito del capitalismo, DeriveApprodi, Roma.
Holloway 2010: John Holloway, Crack Capitalism, Pluto Press, London-
New York.
Marx 2004: Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi,
Torino.
Marx 1997: Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia
politica. 1857-1858, La Nuova Italia, Firenze.
Marx 1997-2: Karl Marx, Il Capitale. Critica dell'economia politica, 3 volumi,
Editori Riuniti, Roma.
Musil 2014: Robert Musil, L'uomo tedesco come sintomo, Pendragon,
Bologna.
Musil 1992, L'uomo senza qualità, 2 volumi, Mondadori, Milano.
Panzieri 1976: Raniero Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico,
Einaudi, Torino.