disforia mundi
Non aspettarti molto dalla fine del mondo. Naufragio estetico e disagio psichico nell’agonia occidentale.
In Bad Luck Banging Or Loony Porn, un film di due anni fa, il regista romeno Radu Jude raccontava la storia di una professoressa di Bucarest che viene messa sotto accusa perché qualcuno ha postato in Internet una scena piuttosto spinta in cui lei scopa con il marito. Quella storia permetteva a Jude di squadernare davanti agli occhi dello spettatore inorridito la vita quotidiana ai tempi della visibilità totale. Le piccole bruttezze filtrate dallo schermo ubiquo cellulare si moltiplicano nella scortesia generale della vita urbana, nella disagevolezza di ogni atto, di ogni parola, di ogni relazione.
Ora Radu Jude (numero uno nella mia personale classifica degli artisti contemporanei) presenta un capolavoro assoluto dell’orrendo: Nu astepta prea mult de la sfarsitul lumii (Do Not Expect Too Much from the End of the World).
La protagonista del film è una giornalista televisiva freelance precarissima che passa il tempo della sua giornata in un’auto per correre da una parte all’altra della città a intervistare dei tipi che hanno subito mutilazioni sul posto di lavoro.
La bruttezza dei corpi piegati al conformismo pubblicitario, l’abiezione morale di ogni relazione tra individui, lo sfruttamento schifoso del lavoro precario, l’angosciosa miseria dell’ambiente urbano, la degradazione estetica e morale di ogni attimo del tempo e di ogni millimetro dello spazio - ecco la miserevole fine del mondo di cui parla Radu Jude. Un degradarsi inesorabile cui l’organismo vivente si ribella disperatamente usando gli strumenti illusori della politica, finendo per sprofondare nelle sabbie mobili di una condizione che di politico non ha più niente.
Jude racconta la precipitazione brutalista contemporanea meglio di qualsiasi analisi politico-ideologica.
Non disponiamo di parole e concetti capaci di spiegare adeguatamente il fenomeno di violenza sociale, psichica, militare che si sta espandendo e tende a sconvolgere il pianeta; forse l’estetica, scienza della percezione, è il modo migliore per comprendere, e per nominare la violenza che parole come “fascismo” non spiegano adeguatamente.
Sappiamo che questi leader che devotamente preparano l’Armageddon sono discendenti delle esse-esse, e che la loro follia non è meno pericolosa di quella che guidò Hitler. Ma non abbiamo le parole per spiegarne la natura e la genesi. Né abbiamo gli strumenti per fermarli.
una inquadratura di Nu astepta prea mult de la sfarsitul lumii di Radu Jude
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Se cerco una parola capace di spiegare l’emergere di figure apertamente psicotiche come Trump, o Milei, o il genocidio perpetrato dagli eredi delle vittime del genocidio hitleriano, o la guerra il cui limite è inimmaginabile che si sta svolgendo alla frontiera orientale d’Europa, la trovo nell’ultimo libro di Paul Preciado, Disphoria mundi.
Il corpo dell’umanità planetaria è entrato in una sorta di orrore di sé che la politica non può curare, perché non ha origine politica, bensì psico-fisica: erotica, estetica e ambientale.
Perciò oggi appare fragile la resistenza politica (razionale, discorsiva, dialogante) nei confronti di un fenomeno che non è riducibile al discorso, al dialogo, alla politica.
Disforia è il fastidio che il soggetto prova per la propria corporeità, il non riconoscersi nel proprio essere fisico e psichico: per la propria bruttezza, per la propria goffaggine, per la propria disgregazione etica e fisica.
La disforia ha un carattere estetico, sensibile, per cui inutilmente cerchiamo di giudicarla con criteri etici, e di governarla con mezzi politici: la genesi della disforia sta all’incrocio tra estetica e psicosi.
Questo fastidio può trasformarsi in orrore di sé, ed esprimersi esplosivamente in aggressione, con forme di crudeltà sadica nei confronti del corpo dell’altro.
Questa aggressione cerca e trova talvolta le sue motivazioni nella politica, ma con la politica c’entra sempre di meno, se politica è (come fu in epoca moderna) riduzione della complessità alla ragione, governo razionale sulla complessità.
Nel suo libro, che a mio parere non svolge a pieno l’intuizione geniale, Preciado concentra la sua attenzione sul fenomeno dilagante della disforia sessuale, sul sentimento del non riconoscersi nel corpo nel quale ci troviamo, sul fastidio intollerabile che provoca questo non essere in sintonia con il proprio corpo sessuato. Penso che l’intuizione di Preciado andrebbe ampliata molto al di là della sfera sessuale, la cui centralità è comunque indiscutibile.
La senescenza del mondo occidentale, ad esempio, è fonte di una disforia che ha molto a che fare con la reazione razzista bianca che sta all’origine del trumpismo.
La tendenza demografica dell’occidente bianco - l’irreversibile processo di denatalità e invecchiamento - è, credo, la ragione più profonda di un moto di violenza razzista che non riconosce alcuna legge, alcun diritto, alcun limite: il genocidio israeliano è oggi il nucleo della reazione disforico-psicotica del corpo bianco globale contro i corpi proliferanti del sud del mondo (di cui il popolo palestinese è simbolo).
La cultura bianca non possiede gli strumenti per elaborare l’invecchiamento, ancor meno che per elaborare la morte. L’impotenza, il vacillare della mente, l’angoscia del venir meno - tutto questo non è tollerabile per la mente bianca, adoratrice dell’illimitatezza, e dell’infinita potenza.
L’invecchiamento che dilaga nell’agonia della civiltà bianca è un fenomeno essenzialmente disforico: il soggetto non si riconosce più nel proprio corpo che si disintegra progressivamente, e sprofonda nella depressione o nell’orrore di sé. L’ironia, l’auto-coscienza, la tolleranza della propria impotenza sono antidoto contro la depressione e la sua estroversione aggressiva. Ma l’auto-disprezzo di una civiltà che ha fondato sulla violenza il suo trionfo ha trasformato l’ironia in cinismo.
L’odio di sé è l’inesauribile fonte dell’odio per l’altro, della volontà di annientarlo.
E, come aveva capito con grande anticipo Gunther Anders (L’uomo è antiquato) l’umanità irrancidita e impotente investe tutte le sue speranze nella potenza della tecnica, dell’intelligenza che finalmente si libera dai limiti della coscienza. Ecco allora l’ultimo riarmo, il riarmo di un popolo colpito da demenza senile, ma ancora capace di spingere il bottone dell’armadio super potente, che finalmente possa liberarci dalla nostra incapacità di pensare la nostra morte, procurando a tutti la fine di tutto.