La peggiore sventura
Essere non solo impotenti a fermare l'orrore, ma anche impotenti a capire. Questa sarebbe la peggiore sventura. Conversazione con Yasmeen Daher al Bethanien Kunstquartier di Berlino
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terminalia #1
di Roberto Epis
il carminio di certi cieli
senza droni
il rosso vivo ben chiuso nei polsi
come triangoli a sbiadire
sui balconi
i richiami delle rondini
in nulla somigliano
alle sirene che attirano genti
negli abissi
sono abitati i frigoriferi
qui ci si rifugia nei bar
le case sono cosa viva
urlano i bambini per gioco
qui ancora riusciamo a dormire
a stringerci senza dolore
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Ho fatto due conversazioni pubbliche.nella settimana che ho passato a Berlino nel mese di giugno. La prima, al Bethanian di Kreuzberg nel contesto del convegno SHADOWS OF ILLIBERALISM era una conversazione con Yasmeen, scrittrice e attivista palestinese.
La seconda alla Haus der Kulturen der Welt. era una conversazione con Brian Kan Wood.
Le registrazioni di tutti gli interventi del convegno SHADOWS OF ILLIBERALISM organizzato da Disruption Lab con la direzione di Tatiana Bazzichelli si possono trovare qui:
https://www.disruptionlab.org/shadows-of-illiberalism#video
La registrazione della conversazione con Brian Kuhn Wood, al HKW, sarà pubblicata la settimana prossima.
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Golden Darkness in Washington (unknown artist)
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“for us the greatest misfortune would be to die powerless both to defeat the oppressors and to understand.” (Simone Weil).
I know we are powerless to stop Nazi-liberalism and genocide, but I do not want to give up the possibility of understanding, and of telling the truth.”
Ho introdotto il dialogo con Yasmeen ripetendo quella frase che Simone Weil scrisse su una rivista tedesca nel 1933, mentre le camicie brune di Hitler invadevano le città tedesche: “La peggiore sventura per noi sarebbe morire impotenti a sconfiggere l’oppressore e anche impotenti a capire.”
La conversazione era centrata sull’alternativa tra la speranza e la disperazione.
Yasmeen diceva le ragioni della speranza: le grandi dimostrazioni contro il genocidio in tutto il mondo, la coscienza etica della nuova generazione, la resistenza del popolo palestinese.
Io dicevo le ragioni della disperazione: l’impossibilità di costituire una soggettività collettiva solidale, autonoma. L’impotenza di fronte alla ferocia dilagante.
Durante lo svolgersi della discussione ho provato un po’ di vergogna per quel che stavo facendo. Ma potevo fare altrimenti? Potevo fingere di credere che una riscossa è possibile nel prossimo futuro? Da sempre mi sono attenuto a un principio: non dire mai nulla che sia contrario a quello che penso, almeno quando parlo pubblicamente. Altrimenti il solo contributo che posso portare, che è un contributo di pensiero, non avrebbe alcun valore.
Non posso fingere una possibilità che non vedo.
Eppure non smetto di chiedermi se questo mi autorizzi a predicare rinuncia.
Non corro forse il rischio di diffondere un sentimento di depressione?
Inoltre cosa ho da dire a chi non può disertare, a chi è intrappolato nelle rovine di Gaza, o nelle trincee d’Ucraina, o nei campi di lavoro schiavistico in cui è costretta gran parte della popolazione migrante e non solo migrante?
Per questo nella seconda conferenza della giornata, all’Haus der Kulturen der Welt ho comunicato la decisione (che avevo preso in quelle ore, dopo avere discusso con Yasmeen) di concludere la mia attività pubblica di parola.
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La prossima settimana pubblicherò il video della conferenza all’HKW.
L’argomento della conversazione all’HKW era la presentazione di un libro dal titolo CHAOS AND THE AUTOMATON pubblicato da Minnesota Press e curato da e-flux, con introduzione di Andreas Petrossiants.
Rispondendo alle domande che mi rivolgeva Brian, ho iniziato raccontando la storia del mio rapporto con la rivista e-flux.
Qui si possono trovare i miei contributi alla rivista nell’arco di quindici anni:
https://www.e-flux.com/search?q=franco+bifo+berardi
Quando, nel 2010, Anton Vidokle mi invitò a scrivere per e-flux non conoscevo la rivista. Erano gli anni di Occupy, e quando incontrai Anton e i suoi collaboratori asserragliati in fondo a East Broadway mi convinsi del fatto che quella era la forma nuova dell’Internazionalismo. L’incontro tra il poeta e l’ingegnere era allora il mio programma politico. La poesia, terapia della respirazione collettiva, era il piano su cui quel programma poteva compiersi.
Ora so che quel progetto non si è realizzato. Il poeta è sempre più solo, disperato. E l’ingegnere, pur soffrendo di depressione, è al servizio del dominio neuro-totalitario, di cui l’automa cognitivo è strumento. Per guadagnare lo stipendio l’ingegnere collabora al genocidio.
Brian mi ha fatto una domanda: è possibile, in questa prospettiva che non lascia più alcuna speranza di emancipazione del genere umano, intravvedere una linea di fuga, è possibile creare isole di vita egualitaria e felice nell’inferno in cui siamo precipitati?
La diserzione è la strada, gli ho risposto. Diserzione dalla guerra, diserzione dal lavoro e dal consumo, e infine diserzione dalla storia, e dalla riproduzione del genere umano. Meglio il nulla eterno che lo schiavismo e l’umiliazione senza fine.
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i carri armati sovietici contro gli operai in rivolta a Berlino, 1953
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17 giugno, Berlino
Perché è andata a finire così?
Non penso che ci sia una risposta a questa domanda: ce ne sono molte.
Occorrerebbe, se ce ne fosse il tempo, ricostruire la storia della sconfitta operaia, che ha portato con sé la barbarie bianca e la guerra.
Non sto bene in questi giorni, mi sveglio con l’emicrania come non succedeva da tanto tempo. Ma è un’emicrania sorda, senza dolori squillanti alle tempie, un’emicrania che induce confusione, nausea, marasma, e dura tutta la giornata.
Abbiamo deciso di andare comunque a vedere la mostra di Lygia Clarke, alla National gallery, alla fine di Leipziger strasse, un chilometro e mezzo di cammino.
In Platz des Volksaustanden der 1953, che sta lungo il percorso, c’è una piccola folla di persone vestite elegantemente che depositano fiori sulla lunga foto rettangolare incastonata nel pavimento della piazzetta:
la foto ricorda l’insurrezione con cui gli operai berlinesi si ribellarono contro l’imposizione sovietica di condizioni di lavoro sempre più dure. Stalin morto da poco, le autorità moscovite ordinarono ai loro vassalli locali di stroncare la rivolta coi carri armati.
Ecco la ragione principale per cui gli operai di tutto il mondo (e l’umanità intera con loro) ha perduto la sola possibilità di sfuggire all’inferno. Il comunismo sovietico trasformato in culto del nazionalismo imperiale russo.
Stalin fu il principale colpevole della sconfitta del comunismo, e il principale responsabile della trasformazione del comunismo in potere di uno stato autoritario.
Poteva andare altrimenti?
Non lo so. E’ certo che da quel momento, da quando i carri armati di uno stato imperiale stroncarono una rivolta operaia, per i lavoratori di tutto il mondo la speranza era morta. Questo si ripetè in Ungheria nel 1956, poi in Cecoslovacchia nel 1968.
La prima ragione per cui è stata distrutta la prospettiva internazionalista sta nel fatto che, con Stalin il principio della nazione prevalse.
Ma poi c’è un’altra ragione, apparentemente opposta alla prima: il movimento operaio dei paesi europei credette che la legge è più importante della forza, e che il diritto si possa sostituire alla lotta di classe.
Il legalismo - rispetto della proprietà privata, obbedienza alle leggi dello stato capitalista - disarmò gli operai, e costrinse le lotte in una dimensione puramente dimostrativa.
I movimenti che esplosero negli anni ’60 e ’70 furono ostacolati dalla direzione legalitaria del movimento operaio. “Giungeremo al governo con la democrazia”, dissero i dirigenti dei partiti socialisti e comunisti francese, italiano, cileno.
Ma la democrazia era un inganno evidente: chi possiede il 90% delle risorse possiede il 90% dei media. Il gioco era truccato.
E anche quando i lavoratori riuscirono a imporre i loro rappresentanti con il voto democratico, come accadde nel Cile degli anni ’70 - i padroni cileni e quelli nordamericani armarono un generale nazista e scatenarono la violenza. Trentamila morti, innumerevoli esuli, e la libertà di sfruttare tornò trionfante al potere.
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Berlin 1953, 17 giugno
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Abbiamo perso perché abbiamo creduto nella nazione e perché abbiamo creduto nella democrazia. La nazione è una trappola sanguinosa, e la democrazia è un inganno.
Occorreva orchestrare la forza di movimenti senza frontiere, occorreva dare il potere agli organismi sociali emersi dalle lotte operaie e studentesche.
Se la sola legge che conta è quella della forza, occorreva organizzare la forza e andare allo scontro con le armi della solidarietà, dello sciopero, dell’occupazione, dell’autogestione della vita quotidiana.
La sinistra - falsa rappresentanza degli interessi sociali - si è identificata con la nazione e ha accettato di piegare gli interessi della classe operaia ai limiti della democrazia, e in questo modo si è trasformata nello strumento della riforma neoliberale, della distruzione del movimento operaio, della precarizzazione, della privatizzazione.
Per una parte del ventesimo secolo la sinistra ha agito come emanazione del nazionalismo totalitario stalinista. Alla fine del secolo e poi all’inizio del ventunesimo la sinistra ha agito come forza direttamente anti-operaia, ha ridotto i salari, ha smantellato lo stato sociale, e in questo modo ha aperto la strada al nazismo di ritorno.
E’ inutile oggi che la sinistra liberal-democratica finga scandalo di fronte all’aperta cancellazione dello stato di diritto e alle politiche razziste di deportazione e sterminio.
E’ stato un uomo della sinistra, un lugubre assassino di nome Marco Minniti, il cervello della pratica di deportazione e sterminio dei migranti che ora è politica ufficiale dell’entità razzista chiamata Unione Europea.
Oggi di fronte al genocidio israeliano, il Partito democratico appoggia la giunta guerrafondaia e genocida di Ursula von den Leyen, che non reggerebbe senza i voti di coloro che siedono alla sinistra in quel parlamento dell’infamia.
Il movimento operaio è stato sconfitto perché cinque secoli di colonialismo non potevano essere rimossi e alla fine la classe operaia (bianca) si è trovata a fare i conti con quell’eredità. La grande migrazione dal sud del mondo ha finito per devastare in maniera definitiva (e al momento attuale direi irreparabile) il movimento dei lavoratori rendendo impossibile l’unità all’interno del processo lavorativo.
Il partito di Sara Wagenhacht in Germania, il Frente Obrero nazionalista e razzista che sta crescendo in Catalogna sono segni tra cento altri dell’impossibilità di ricomposizione del corpo sociale.
L’otto giugno in ItaliaIn Italia c’è stato un referendum.
Quattro delle questioni poste dal referendum riguardavano le condizioni del lavoro, la quinta riguardava la cittadinanza dei migranti.
Solo il 30% dei cittadini ha votato - rendendo così nullo il referendum - ma quel che più mi interessa è il fatto che di quella minoranza di cittadini che hanno votato dicendo sì al miglioramento della condizioni di lavoro, il 40% ha detto no al miglioramento della condizione dei migranti.
Perfino nella minoranza che prende posizione a favore del progresso delle condizioni del lavoro, una parte decisiva non riconosce nei migranti parte del movimento del lavoro.
I migranti sono lavoratori, sono i lavoratori più sfruttati (proprio perché non avendo cittadinanza sono più ricattabili), ma i lavoratori bianchi non sono solidali nei loro confronti. Questa divisione interna alla forza lavoro, accentuata dal peso della precarietà di una porzione ormai maggioritaria, rende impossibile la ricomposizione politica del lavoro.
Per questo non vedo più alcuna speranza di sfuggire all’orrore: perché non esistono più le condizioni per la ricomposizione sociale del fronte del lavoro, perché la soggettività non è più capace di solidarietà.