Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli
Il mondo visto da Useppe. Elogio del Patetico e della diserzione dalla storia.
La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
……..
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C'è chi sopravvive.
Eugenio Montale: La storia
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Perché non lessi il romanzo di Elsa Morante
Nel 1974 facevo il servizio militare in una caserma del sud italiano, cercavo (riuscendoci) di sgattaiolare via dalla caserma, e mentre mi preparavo a lanciare la rivista A/traverso, frequentavo la casa romana di Letizia Paolozzi e Nanni Balestrini, in via dei Banchi Vecchi.
Non lessi La Storia, il romanzo di Elsa Morante che uscì in quell’anno. Né lo lessi negli anni seguenti. Mi erano bastati i giudizi (che definire trancianti è dir poco) firmati dal mio amico e maestro Balestrini, dalla sua allora compagna Letizia, da Umberto Silva e da Elisabetta Rasy, i quali scrissero in un testo dal titolo Contro il romanzone della Morante:
«…Di grandi scrittori reazionari corre voce ce ne siano ancora, certo però non pensavamo ci fosse ancora spazio per bamboleggianti nipotini di De Amicis. (…) Nell’arcipelago di miserabilini della Morante i poveri sono talmente poveri che neppure hanno più il bene dell’intelletto. (…)”
Mi era bastato inoltre il giudizio di Rossana Rossanda che sul Manifesto accusava Morante di
“non riuscire a concepire che un mondo di umiliati e offesi, che la povertà, o complesse condizioni di emarginazione o devianza, o tracolli generazionali o stavolta, la guerra e la condizione dell’ebraismo, condannano ad essere ineluttabilmente vittime. (…) Mi si lasci dire Grazie no.”
Cinquanta anni dopo, mentre il pianeta precipita in un abisso che nel 1974 non potevamo neppure immaginare, ho letto finalmente La Storia di Elsa Morante. Ho fatto bene ad aspettare perché in quegli anni lontani mezzo secolo non l’avrei capito, forse mi avrebbe irritato.
Anche adesso è difficile sopportare la verità apocalittica di questo romanzo, ma oserei dire che questo è uno dei pochi libri del ventesimo secolo italiano che sia all’altezza della tragedia terminale che oggi stiamo vivendo.
Pasolini, che pure di Morante era stato amico, e non era affetto dal settarismo formalista-avanguardista, fa schizzinosamente il critico letterario e stronca sprezzante il romanzo:
“tutti i personaggi sono declamati, improbabili, irreali: quindi manieristici. Puro manierismo è l’infanzia di Useppe; puro manierismo è la giovinezza di Nino, puro manierismo la grinta di Davide, ecc.” (Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti 1996)
Se mi andasse di fare il critico letterario (e non è nelle mie intenzioni) farei qui osservare allo schizzinoso Pasolini che non c’è esempio di manierismo peggiore dei discorsi in stile libero indiretto con cui lui infarcisce il suo noiosissimo Ragazzi di vita. Ma non so fare il critico letterario, e mi limito a cercare tracce del divenire nelle parole dei poeti.
Ci sono alcune pagine del romanzo di Morante che raccontano la morte di Giovannino nella neve e nel ghiaccio di Russia. A me paiono pagine altissime su quella immane tragedia storica, e su quella infame dimostrazione di cinismo dei fascisti che fu la spedizione in Russia di poveri ragazzi con le scarpe di cartone, ma Pasolini trova che sia inutile raccontare quella storia perché non ci importa nulla di quel personaggio. Scrive Pasolini:
“Per esempio, un certo Giovannino, figlio di una signora presso cui Ida subaffitta una camera. Egli è soltanto nominato come assente, in quella casa (si trova in Russia): ma nulla impedisce alla Morante di imporci, qualche tempo dopo, una lunga e circostanziata descrizione della sua morte in Russia, che non riusciamo a capire se sia bella o brutta, tanto poco ci importa di quel personaggio.”
Io confesso che leggendo le pagine su Giovannino sono stato diciamo così travolto dall’emozione, dalla rabbia, dalla sconsolatezza.
“Adesso Giovannino non sa più se questo assillo che lo brucia è gelo o è fuoco. Sente il cervello che gli bolle, e dei brividi che gli strizzano il cuore come un limone. Di continuo, tra le gambe, gli scivola un tepore vischioso che subito si congela e gli si incrosta sulla carne. Per la sete incessante vorrebbe leccare la manica gelata del proprio cappotto, ma il braccio e la testa gli ricadono giù stremati…… Giovannino per dormire vorrebbe raggomitolarsi; se non fosse che il suo corpo, a motivo di tutto quel freddo passato, s’è fatto così duro da non riuscire a piegarsi più.” (Morante: La Storia, Einaudi, 1974, 385-7)
Così Giovannino muore, come fosse un soldato ucraino o un soldato russo nella guerra che oggi vediamo in televisione e che tanto assomiglia alle guerre del secolo passato, e non possiamo non sentire il dolore di quella solitudine, l’angoscia di quel freddo, di quel sonno di pietra che lo avvolge. Forse proprio qui sta la colpa che si attribuisce a Morante, se capisco bene: le manca l’aplomb, il distacco, l’ironia, la brechtiana freddezza ragionante. Le mancano tutti gli attributi maschili che occorrono per essere all’altezza della storia.
Anche Italo Calvino che pure stimava Elsa, e a cui il romanzo “non piace fino in fondo”, lo dice con chiarezza: un narratore contemporaneo può far ridere o far paura al suo lettore, ma «farlo piangere no».
Perché?
Mi viene da chiedere a Calvino: perché la letteratura non deve farti piangere, visto che il pianto è la reazione insopprimibile alla tristezza e all’orrore di cui il secolo ci inonda?
A Calvino rivolgo la stessa domanda che il piccolo Useppe balbetta di fronte all’assurdo della storia che lui non può capire, e allora si limita a chiedere: “a ma’, pecché?”
Il rifiuto del patetico è la chiave di lettura di Calvino, altri invece aspettano la salvezza dalla storia, ed esibiscono orgogliosamente il loro maschio rifiuto di piangere, di arrendersi, e si preparano alla pugna. Invece l’autrice di questo libro trasgredisce il principio indiscutibile del decennio che segue al Sessantotto: che la storia ci riscatterà.
Istubalz 2022
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Elogio del Patetico
Proprio per questo, con un ritardo clamoroso, ho letto adesso Morante, e la difendo contro il mio amico e maestro Balestrini, e contro tutti gli altri. Morante non ha alcun bisogno di essere difesa da me, naturalmente, quindi lo dirò in un’altra maniera.
La Storia è il romanzo italiano del Novecento che più di ogni altro mi pare all’altezza del secolo successivo.
Ho letto le vicende del piccolo Useppe e dell’ebrea Ida Ramundo che scappano da un quartiere all’altro cercando salvezza dalle retate naziste e dalle bombe, proprio nei giorni in cui il genocidio di Gaza costringe chiunque non sia un mostro o un servo dei mostri a riconoscere che adesso la storia è finita, finita davvero, e quello che resta è soltanto la ripetizione infinita dell’orrore, della ferocia e del dolore, perché il nazismo è tornato, impersonato dai discendenti di coloro che ne furono le vittime.
Forse a metà degli anni Settanta era legittimo considerare patetico un romanzo che racconta i grandi eventi dal punto di vista di un passerotto che saltella cantando: “E’ uno scherzo, uno scherzo, soltanto uno scherzo”.
Forse allora era legittimo opporre i partigiani coscienti di Fenoglio o gli operai ribelli della Fiat Mirafiori ai poveri di Morante, che sembrano non avere una visione piena di quello che accade intorno a loro, delle cause del loro male e delle prospettive che la coscienza può aprire.
Forse allora.
Ma oggi l’orizzonte s’è rovesciato, e per questo La Storia di Elsa Morante mi appare oggi come l’opera che meglio inquadra (non inquadrandola affatto, anzi lasciandola a margine) la seconda guerra mondiale, la più grande carneficina di tutti i tempi, una carneficina che comincia ad apparire un anticipo di quel che ci aspetta, nei giorni in cui Trump annuncia la più grande deportazione di tutti i tempi, e Musk fa il saluto hitleriano per le folle plaudenti di tutto il pianeta.
Forse allora, quando i proletari si affollavano nelle sedi di lotta continua e potere operaio per organizzare la lotta finale, poteva sembrare offensiva la storia del partigiano Ninnuzzu prima fascista poi stalinista poi anarchico poi camorrista. Ma oggi sappiamo che i proletari - come gli intellettuali - sono così, non in un altro modo: sono comunisti quando la solidarietà è possibile, servili e fascisti quando ciascuno deve pensare a se stesso.
Non è un giudizio morale quel che ci serve, ma un’analisi materialistica. E proprio un’analisi materialistica mi porta a dire che questo fu la Resistenza: non un glorioso movimento di popolo, ma il repentino rovesciamento delle appartenenze: quando gli italiani si resero conto di essere stati ingannati da Mussolini, e capirono che stavano per finire in un tritacarne mortifero, allora scapparono dalle caserme, abbandonarono le armi, oppure le rivolsero contro gli alleati di ieri. Allora tradirono i loro alleati tedeschi e passarono dalla parte dei nuovi alleati anglo-americani, che pure non erano meno imperialisti e criminali dei nazisti tedeschi.
E come allora i proletari in armi cambiarono fronte, così dagli anni ’80 in poi, sotto il fuoco delle televisioni di Berlusconi e della spietatezza thatcheriana, sotto il fuoco della deregulation e dei discorsi leghisti, gli operai cambiarono fronte e ora ingrossano le file del razzismo bianco, perché nella storia non c’è nessuna coerenza, e non si può pretendere la coerenza dalle sue vittime.
Questo dice il romanzo scandaloso di Morante.
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il punto di vista extra-storico
Il romanzo comincia con una violenza sessuale da cui nasce Useppe. Un soldato tedesco di passaggio per Roma, un biondino che pochi giorni più tardi morirà durante la traversata verso l’Africa, incontra per le strade di San Lorenzo una piccola maestra elementare e la trascina su per le scale, e la stupra. Lei non reagisce, non dice niente, guarda nel vuoto, e lui quasi si commuove, le regala un coltellino che si trova in tasca, poi se ne va.
Così inizia la storia, con una violenza, e con la nascita di un innocente che non ha chiesto di venire al mondo, e che per un po’ crede che il mondo sia un bel posto, un posto da scoprire con tutti quei colori incomprensibili dapprima, poi poco alla volta comprensibili e tremendi.
“Non s’era mai vista una creatura più allegra di lui. Tutto ciò che vedeva intorno lo interessava e lo animava gioiosamente. Mirava esilarato i fili della pioggia fuori della finestra, come fossero coriandoli e stelle filanti multicolori… Una delle prime parole che imparò fu 'ttelle, stelle, però chiamava ‘ttelle anche le lampadine di casa, i derelitti fiori che Ida portava da scuola, i mazzi di cipolle appesi, persino le maniglie delle porte, e in seguito, anche le rondini.”(120).
Morante non racconta la storia della seconda guerra mondiale, la mette a margine, come se si trattasse di eventi troppo grandi e incomprensibili per poterli davvero raccontare. Quel che si può raccontare è il minuscolo incedere della vita, del tempo.
“La primavera dell’anno 1942 avanzava, intanto, verso l’estate…” (121)
Useppe cammina nelle strade della guerra con allegria perché per lui non ci sono eventi storici, ma un teatro di figure da scoprire, un teatro bellissimo, fin quando non sappiamo che significa.
“Quel mondo e quella popolazione, poveri, affannosi e deformati dalla smorfia della guerra, si spiegavano agli occhi di Useppe come una multipla e unica fantasmagoria, di cui nemmeno una descrizione dell’Alhambra di Granada, o degli orti di Shiraz, né forse perfino del paradiso terrestre potrebbe rendere una somiglianza. Per tutta la strada Useppe non faceva che ridere….” (122)
Useppe guarda il mondo prima di averne conosciuto il senso, e nomina le cose in maniera innocente. Non sa cosa significhi quel che vede, e quel che vede è meraviglioso, perché mai visto. Non sa cosa sono gli uomini, e li riconosce solo perché gli appaiono parte di una sua immaginaria illimitata famiglia. Il suo sguardo irrora di erotismo l’esperienza, perché l’esperienza non è ancora carica di significato.
“…se si fosse presentato uno squadrone di SS con tutto il loro armamentario di strage, il buffo Useppe non ne avrebbe avuto paura. Quell’essere minimo e disarmato non conosceva la paura, ma un’unica spontanea confidenza. Sembrava che per lui non esistessero sconosciuti, ma solo gente sua, di famiglia, di ritorno dopo qualche assenza, che lui riconosceva a prima vista….Useppe sembrava addirittura ammattito, innamorato di tutti.” (186-7)
Mentre il piccolo Useppe impara a parlare e a correre in uno stanzone pieno di rifugiati e nelle strade piene di rovine provocate dai bombardamenti, il primo figlio di Ida Ramundo, Nino, Ninnuzzu, Ninnarieddu, che da ragazzino esaltava le imprese del Duce Mussolini, quando le cose si sono messe male per le camicie nere è diventato partigiano, e quando la guerra finisce decide di continuare la sua guerra personale.
“…Questa idea di sfasciare pareva mettergli addosso un’allegria straordinaria: e vi credete pure di farci tornare a scuola… la geografia io me la vado a studiare sur posto. La Storia è una commedia loro, che ha da fini’. Noi gliela famo fini’. noi siamo la generazione della violenza! Quando s’è imparato er gioco delle armi, ce se rigioca!” (442).
Ida assiste a questi cambiamenti senza capirne il senso.
“Già si sa che d’abitudine, Ida non leggeva i giornali. E da quando la guerra mondiale s’era conclusa, e i tedeschi erano andati via, il mondo degli adulti si era di nuovo ritirato da lei, ributtandola sulle sabbie al suo destino come un detrito infinitesimo dopo una tempesta oceanica.” (482).
I personaggi del romanzo di Morante muoiono tutti: il figlio Ninnuzzu in un incidente stradale, il piccolo Useppe per una crisi epilettica, la stessa Ida in un ospedale psichiatrico dopo la perdita di entrambi i figli. E anche Davide Segre, ebreo, partigiano, amico di Ninnuzzu, tormentato dalla perdita della famiglia deportata in un campo di sterminio, e ancor più dalla consapevolezza tragica dell’irredimibilità della condizione storica, finisce per morire di un’overdose di morfina.
La guerra è finita, le bandiere tricolori sventolano insieme alle bandiere rosse, il paese sembra credere di avere un futuro di benessere e democrazia, ma nel romanzo La Storia non c’è nessuno che viva in quel futuro, perché Elsa Morante ci dice che nella storia non c’è il futuro. Il tempo dell’esistenza dei personaggi di Morante è un tempo senza domani.
E’ comprensibile che negli anni Settanta, quando ancora la memoria antifascista era viva, e quando i movimenti operai e studenteschi rendevano credibile un futuro di liberazione nel tempo storico, quel romanzo avesse una risposta critica molto negativa, quasi brutale.
Oggi capisco quel che non capivo allora e che Morante, con il suo stile un po’ arcaico e un po’ sognante era riuscita a comprendere: che nella storia ci sono momenti di gioia collettiva e di solidarietà che dobbiamo e possiamo vivere con tutta l’intensità di cui siamo capaci. Ma che questi momenti non sono che parentesi in un processo la cui direzione è segnata, iscritta nel paradigma patriarcale e assassino che inizia la storia: il paradigma di Abramo che uccide Isacco per dare soddisfazione al suo dio, il paradigma di Agamennone che uccide Ifigenia per la gloria della patria e dei guerrieri greci.
Oggi riusciamo a comprendere che la sfera storica ha esaurito le sue promesse perché il sommarsi di tre collassi irreversibili spinge la maggioranza della popolazione nella demenza: il collasso geopolitico, il collasso ambientale, il collasso psichico.
Un quarto collasso - quello demografico - appare adesso come la via d’uscita dalla storia: inesorabile restringimento della popolazione planetaria. Le donne sembrano orientarsi verso un rifiuto conscio ed inconscio di generare le vittime dell’inferno che si sta delineando: il genere umano per la prima volta si predispone a divenire nulla. E chi è nato in questo secolo parla di sé come generazione ultima.
La condizione ultima è alla ricerca di un pensiero: un pensiero extra-storico che ci permetta di vedere la terminazione in corso da un punto di vista esterno all’illusione del progresso storico.
L’illusione che Elsa Morante seppe riconoscere e dissipare quando tutti gli altri soffrivano di presbiopia e non sapevano vedere lontano, né potevano presagire l’Apocalisse.
Gennaio 2025