Poteva finire altrimenti?
Poteva Israele non diventare uno stato razzista colonialista e fascista? L’ultima lezione di Amos Oz e un libro di Gad Lerner non rispondono alla domanda.
Mentre la comunità internazionale cerca di fermare il genocidio, e si contano quarantamila morti, gli israeliani continuano nella loro azione di sterminio, usando tutte le tecniche con cui nei secoli sono stati perseguitati e sterminati gli ebrei - dalla deportazione al pogrom, alla tortura.
Anche se non possiamo immaginare come evolverà questa tragedia, ogni giorno appare più probabile che lo stato sionista è destinato a disintegrarsi per effetto dei conflitti interni, dell’isolamento esterno e soprattutto dell’orrore di sé.
E’ legittimo porsi la domanda: poteva andare a finire altrimenti?
Poteva lo Stato voluto dai sionisti, autorizzato dai colonialisti inglesi, protetto dagli imperialisti americani, armato e finanziato dagli occidentali per dominare la regione da cui proviene il petrolio, poteva uno stato nato con un massacro e sorretto dalla minaccia armata permanente evolvere in maniera diversa?
Poteva lo stato occupante, odiato da un miliardo di islamici costretti a subirne la presenza, non evolvere in direzione del fondamentalismo religioso, del razzismo, e del suprematismo nazistoide?
Non poteva. E’ difficile credere che gli inglesi e gli americani, principali responsabili (insieme ai nazisti tedeschi, naturalmente) di quella deportazione degli ebrei che prende il nome di ritorno alla terra promessa, non sapessero che stavano esponendoli a una condizione durissima, destinata nel tempo a evolvere verso un nuovo Olocausto.
Ora l’Olocausto è realtà per i palestinesi, ma è anche la prospettiva per gli ebrei che il sionismo ha esposto all’odio di innumerevoli nemici.
Israele gode di una superiorità militare indiscussa, ma il tempo non lavora a suo favore.
Poteva andare altrimenti, oppure l’evoluzione di Israele era iscritta nella sua nascita violenta? Poteva il sionismo evolvere in direzione pacifica, oppure l’ostilità di cui gli occupanti sono stati circondati fin da principio era destinata a costringere Israele a divenire quel che è diventata?
Poteva andare altrimenti?
Poco prima di morire Amos Oz ha tenuto una conferenza che è pubblicata da Feltrinelli con il titolo:“Resta ancora tanto da dire”, e il sottotitolo: “Ultima lezione”.
Da molto tempo sono un lettore di Oz, e grazie a libri come Storia di amore e di tenebra, o come Giuda credo di aver potuto riflettere sulle questioni fondamentali dell’identità ebraica, e dell’identità in generale.
L’identità come problema, come costruzione illusoria e come trappola.
A torto o a ragione ho imparato a considerare l’opera di Amos Oz come espressione della vocazione internazionalista dell’ebraismo europeo.
“Mio zio era un europeo consapevole in un’epoca in cui in Europa nessuno si sentiva europeo, a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano pan-slavi, pan-germanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi, slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. Mio padre diceva sempre: in Cecoslovacchia vivono tre nazionalità, cechi, slovacchi e cecoslovacchi, cioè gli ebrei. In Yugoslavia ci sono i serbi, i croati, gli sloveni, e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di iugoslavi, e perfino con Stalin, ci sono russi e ucraini e uzbechi e ceceni e catari, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico…. Oggigiorno l’Europa è completamente diversa, oggi è piena di europei, da un muro all’altro. Tra parentesi anche le scritte sui muri sono cambiate completamente: quando mio papà era ragazzo a Vilna stava scritto su ogni muro d’Europa: giudei, andatevene a casa, in Palestina. Passarono cinquanta anni e mio padre tornò per un viaggio in Europa dove i muri gli urlavano addosso: ebrei, uscite dalla Palestina.” (Una Storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, 2004, 86-87).
Non sono gli ebrei che hanno voluto tornare in Palestina. Sono i nazisti europei che li hanno spinti ad andarsene, sono i sionisti che insieme agli inglesi hanno preparato la trappola in cui gli ebrei sono caduti. Quella trappola si chiama Israele.
Come molti altri ebrei europei, i genitori dello scrittore abbandonarono l’Europa per riparare in Palestina, negli anni in cui il progetto sionista sembrava potersi realizzare in condizioni pacifiche.
“Ovviamente sapevamo quanto fosse dura la vita in Israele: sapevamo che faceva molto caldo, che c’erano il deserto e le paludi, la disoccupazione e gli arabi poveri nei villaggi, ma vedevamo sulla grande mappa appesa in classe che gli arabi in terra d’Israele non erano molti, forse in tutto mezzo milione a quell’epoca, sicuramente meno di un milione, e c’era la certezza che ci fosse spazio a sufficienza per qualche milione di ebrei, che probabilmente gli arabi sarebbero stati incitati contro di noi come il popolino in Polonia, ma si sarebbe potuto spiegare loro che da noi avrebbero tratto solo vantaggi, economici, sanitari, culturali e quant’altro. Pensavamo che entro breve tempo qualche anno appena gli ebrei sarebbero stati la maggioranza in Israele - e allora avremmo dimostrato a tutto il mondo come ci si comporta in modo esemplare con una minoranza. Così avremmo fatto noi con gli arabi: noi, che eravamo sempre stati una minoranza oppressa, avremmo trattato la nostra minoranza araba con onestà e giustizia, con generosità e avremmo costruito insieme la patria, diviso con loro tutto, non li avremmo mai assolutamente mai fatti diventare dei gatti. Che bel sogno.” (pagina 240)
Nell’epoca di cui Oz sta parlando sembrava esserci spazio per una coscienza solidale, egualitaria, e internazionalista. Ma poiché il nazionalismo dominava la politica europea, anche gli ebrei, se volevano sopravvivere, dovevano identificarsi come popolo, come nazione.
“… in quegli anni tutti i polacchi erano intossicati di polacchità, gli ucraini di ucrainità, e così anche i tedeschi e i cechi, perfino gli slovacchi e i lituani e i lettoni mentre noi non avevamo posto dentro questo carnevale, noi eravamo degli esclusi, degli indesiderati. C’è di che stupirsi, dunque che anche noi ambissimo a diventare un popolo, come tutti gli altri? Che scelta avevamo?” (241)
Alla fine sappiamo com’è andata: dopo averli sterminati, gli europei vomitarono fuori (l’espressione è dello stesso Oz), la comunità ebraica che pure era la più profondamente europea, perché incarnava più compiutamente i valori del razionalismo, e del diritto. Proprio perché gli ebrei non avevano un rapporto ancestrale con la terra europea, il loro europeismo era fondato sulla Ragione e sul Diritto, non sull’identità etnica.
La Shoah ha costretto gli ebrei a desiderare l’appartenenza, a intraprendere un percorso che nega l’universalismo in nome della nazione etnica. Il sionismo incarna questo passaggio, comprensibile e catastrofico.
La notte in cui alle Nazioni Unite si sancisce la fondazione dello stato di Israele il padre del narratore di Una storia di amore e tenebra dice al figlio:
“…d’ora in poi, dal momento in cui avremo uno stato, mai nessuno più ti molesterà soltanto perché sei ebreo, e perché gli ebrei sono così e cosa’. Questo no, mai più. Da stanotte è tutto finito. Finito per sempre.” (Pag. 431).
Purtroppo, come sappiamo, il papà di Amos si sbagliava: la creazione violenta dello stato di Israele mise in moto una catena interminabile di sofferenze e di vendette. Quel luogo che doveva diventare il porto sicuro per gli ebrei di tutta la terra è oggi il posto più pericoloso per loro, il posto in cui la possibilità di essere aggrediti sono più alte, come ha dimostrato il 7 Ottobre, e come temo dimostrerà la storia futura.
Dopo il 1947 il nazionalismo rese impossibile la convivenza pacifica tra arabi ed ebrei: da un lato le entità politiche arabe uscite dalla disgregazione dell’Impero Ottomano avevano riproposto il modello del nazionalismo europeo, e non accolsero pacificamente degli ebrei sul loro territorio. Dall’altro gli ebrei pretesero di costituire uno stato nazionale in un territorio che non gli apparteneva e gli era ostile.
Ecco allora i giovani israeliani costretti a combattere una guerra interminabile, e i giovani palestinesi costretti a vivere in campi profughi nei quali non possono far altro che odiare gli occupanti. In queste condizioni era inevitabile che l’equilibrio politico israeliano si spostasse a destra, fino all’attuale coalizione tra fascisti e ortodossi che ha trasformato Israele in un mostro pericoloso prima di tutto per gli ebrei.
Nei secoli della diaspora l’universalismo era stato la forma mentis dell’intellettualità ebraica, ma quando gli ebrei fondano un loro stato e sono chiamati a identificarsi territorialmente, ecco che si produce un effetto di identificazione dell’ “altro”: il palestinese. Molti giovani israeliani erano costretti a combattere una guerra che odiavano, per un ideale nazionalistico nel quale non credevano.
“Una notte d’inverno mi toccò il turno di guardia con Efraim Avneri… nella notte non vedevo il suo volto però colsi un’ombra di ironia sovversiva nella sua voce, quando mi rispose: Assassini? Ma che ti aspetti da loro? Dal loro punto di vista noi siamo extraterrestri giunti dallo spazio a sparpagliarci sulla loro terra, che pian piano abbiamo conquistato, ma mentre assicuriamo loro che in realtà siamo venuti per coprirli di ogni ben di dio, con l’astuzia ci accaparriamo un appezzamento dopo l’altro del loro suolo. Dunque che cosa vorresti? Che ci ringraziassero della nostra bontà d’animo? Che ci venissero incontro suonando le fanfare? Che ci porgessero rispettosamente le chiavi di tutto il paese perché i nostri avi un tempo vivevano qui? C’è forse da stupirsi se hanno imbracciato le armi contro di noi? E adesso che abbiamo inferto loro una sconfitta schiacciante, e centinaia di migliaia di loro da quel giorno vivono nei campi profughi, ti aspetti forse che condividano la nostra gioia e ci augurino ogni bene?
….stando così le cose, perché mai sei qui a fare la ronda armato? Perché non te ne vai dal paese? O prendi l’arma e passi a combattere dalla loro parte?
Dentro il buio sentii il suo sorriso triste:
O dalla loro parte? Dalla loro parte mica mi vogliono, in nessun posto al mondo mi vogliono. Nessuno mi vuole. La questione sta tutta qui. Ce n’è già troppa dappertutto di gente come me. Solo per questo mi trovo qui. Questa è l’unica ragione per la quale porto un’arma, perché non mi caccino pure di qui. Ma la parola assassini non la userei mai per degli arabi che hanno perduto i loro villaggi. E comunque non la uso con leggerezza a proposito di loro. Dei nazisti lo dico senza esitazione. Di Stalin, pure. E di tutti coloro che espropriano terre altrui.” (Storia di amore e di tenebra, 514)
Pagine come questa mi hanno convinto del fatto che Amos Oz interpreta la contraddizione dell’essere israeliani, esprimendo il desiderio di pace fra popoli diversi: il contrario del sionismo.
Istubalz
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Giuda
Pubblicato nel 2014, Giuda racconta la storia di un giovane ricercatore che studia la figura storica di Giuda Iscariota, che la cultura cristiana identifica come il traditore per eccellenza, e come il simbolo della malvagità ebraica.
Non riducibile all’identico della nazione il tradimento è il senso della razionalità moderna, e della sua figura storica: l’intellettuale. L’intellettuale, figura ebrea per eccellenza, è colui che tradisce l’identità nazionale in nome dell’universalità della Ragione. Per questo il fascismo è costitutivamente anti-intellettuale. A proposito della figura del traditore Oz scriveva nelle Tubingen Lectures del 2002, tradotte in Italia col titolo Contro il fanatismo:
“La mia percezione è che nel conflitto tra israeliani e arabi palestinesi non ci sono buoni e cattivi. C’è una tragedia: il contrasto tra un diritto e l’altro. L’ho già detto tante volte da meritarmi il titolo di traditore patentato, agli occhi di molti miei connazionali israeliani.” (Contro il fanatismo, Feltrinelli, 2004, 18-19).
Si può tradurre la parola “tradimento” con la parola “internazionalismo”, perché questa cultura politica, che nel Novecento parve potersi affermare, significa rifiuto radicale della nazione, rifiuto della logica di appartenenza, e quindi rifiuto della guerra: diserzione.
Il personaggio di Abrabanel, ebreo colto e poliglotta, che compare nel romanzo Giuda, non ha nessuna simpatia per lo stato di Israele, perché considera l’idea stessa di stato nazionale come una prova di arretratezza culturale. Come può l’uomo moderno accettare una simile negazione dell’universalismo etico che da Kant in poi dovrebbe essere a fondamento della politica?
“Abrabanel non era entusiasta dell’idea di stato. Per nulla. Non gli piaceva per nulla un mondo suddiviso in centinaia di stati nazionali. Come le file di gabbie separate al giardino zoologico. Non parlava lo yiddish, parlava ebraico e arabo, parlava ladino e inglese, e francese, turco, e greco, ma di tutti gli stati nazionali del mondo diceva giusto in yiddish: Goyem naches, soddisfazione dei popoli. L’idea stessa di stato la considerava infantile, antiquata.” (Giuda, Feltrinelli, 2014, p. 201)
Un internazionalista non può accettare la soluzione che la comunità internazionale ha considerato la migliore possibile: “due popoli due stati”. Da quando, militante ventenne, ho cominciato a pensare la questione palestinese, mi sono convinto del fatto che quella formula sancisce un principio inaccettabile: l’entità politica statuale si fonda sull’identità etnica, o sull’appartenenza religiosa.
Fu un dirigente di Potere operaio, il gruppo politico in cui militavo allora, a convincermi che lo stato nazionale non è la soluzione di niente, ma è il problema. E che due stati non potevano offrire soluzione al problema di come convivere pacificamente in terra di Palestina, o di Israele che è lo stesso. Quel dirigente si chiama Franco Piperno, ebreo e comunista.
Quando gli europei si liberarono degli ebrei spedendoli nel deserto di Palestina, si crearono le condizioni di una tragedia infinita, frutto avvelenato della vittoria del nazionalismo contro l’internazionalismo.
Lo sa bene Atalya, che in Giuda è la moglie di un giovane israeliano ucciso durante uno scontro a fuoco con gli arabi.
“Atalya lo guardò in tralice, dalla chaise long, e come sputando le parole tra le labbra disse: Volevate uno stato? Volevate l’indipendenza? Bandiere e divise e banconote e tamburi e trombe. Avete sparso fiumi di sangue innocente avete sepolto un’intera generazione. Avete cacciato centinaia di migliaia di arabi dalle loro case, avete spedito navi intere di immigrati sopravvissuti a Hitler dritto dal capannone di accoglienza ai campi di battaglia. Tutto per avere qui uno stato di ebrei. E guardate cosa avete ottenuto.” (200).
Condivido dal profondo del cuore il disprezzo che Atalya esprime per lo stato nazionale. E mi pare che il cuore di Amos Oz provasse lo stesso sentimento, quando scriveva queste pagine. Perciò, leggendo L’ultima lezione mi sono sentito a disagio, come se incontrassi un amico e non riuscissi a riconoscere la sua voce, e soprattutto a capire le sue parole. In questa conferenza, del 2019, sembra che Oz sia diverso da quello che avevo intravisto nei suoi romanzi, ma forse la colpa è mia: forse non avevo capito. Oppure forse nell’ultimo periodo della sua vita Amos Oz ha perduto ogni speranza di una comunità politica in cui le diverse culture convivano, e in cui il diritto sia fondato sulla ragione e sulla parola, e non sull’appartenenza e la tradizione. Nell’ultima lezione dice Oz:
“Non fatevi illudere da quello che dicono le anime belle sullo stato multietnico o binazionale come patria di tutti i suoi cittadini. Non esiste nulla del genere.” (16)
Forse sarò un’anima bella, ma sono convinto che non esista civiltà né decenza morale né pace se si pensa che lo stato debba corrispondere all’etnia, alla religione, all’identità. Davvero Amos Oz ha sempre pensato quel che dice in questa sua ultima conferenza? Davvero si è sempre identificato con le anime brutte?
Poi lo scrittore racconta del suo incontro con un intellettuale palestinese emigrato a Parigi che gli parla di Lifta, il villaggio da cui la sua famiglia è stata espulsa dai coloni ebrei decenni prima, e gli dice che non potrà mai rinunciare a desiderare il ritorno.
Davvero vuoi tornare a Lifta? gli chiede Oz, facendogli osservare che il suo villaggio non esiste più, come la sua infanzia. Non si può ritornare perché il mondo passato è stato distrutto non solo dalla deportazione e dall’occupazione, ma anche dalle ruspe, dai condomini, dalle autostrade e insomma dal tempo.
Oz accusa allora il suo interlocutore di essere malato di “ritornismo”.
“Sei malato, e ho la diagnosi. Per la tua malattia. Sei malato di ritornismo. Cerchi nello spazio qualcosa che si è perduto nel tempo….”(26)
Non sono un fanatico della memoria, e riconosco che non si può fondare una politica sulla nostalgia di quel che fu nostro nel passato, però qualcosa suona falso in questo invito a emanciparsi dal passato, perché proviene da un ebreo che ritorna in una terra che i suoi antenati abitarono duemila anni fa. Come può ridere di un uomo che ha nostalgia della casa in cui abitavano i suoi genitori?
Lo stesso Oz qualche pagina più avanti si chiede se anche lui, e la sua famiglia, i suoi genitori che sono tornati in Israele duemila anni dopo esserne partiti, non siano malati di ritornismo.
“Dopo che ci fummo salutati non potei fare a meno di domandarmi: scusa, Amos, ma anche il sionismo non è forse ritornismo?…”(28)
Però alla fine Amos Oz si assolve, e assolve i sionisti dalla diagnosi di ritornismo, scrivendo:
“Ci ho rimuginato a lungo, e la mia risposta di fondo è no, cum grano salis. Sostanzialmente no. A essere molto prudenti, proprio no. Non si tratta di ritornismo. Perché i miei avi da due millenni dicevano la sera di Pasqua: l’anno prossimo a Gerusalemme. E’ vero. Ma se non li avessero perseguitati, umiliati e massacrati, avrebbero continuato a dirlo per altri duemila anni. Eppure non venivano qui.” (29).
Strano discorso. Infatti le sue parole suonano esitanti, contorte:
la mia risposta di fondo è no, cum grano salis. Sostanzialmente no. A essere molto prudenti, proprio no.
Cum grano salis.
Sostanzialmente.
A essere molto prudenti.
Si vede che Oz sta camminando sulle uova.
Com’è la storia?
Gli ebrei sono ritornati dopo duemila anni ma non sono ammalati di ritornismo perché sono stati perseguitati, e non potevano far altro che tornare nella terra dei loro antenati, anche se questo ha comportato la cacciata di chi in quella terra abitava da alcuni secoli. E ci viene a raccontare che i palestinesi soffrono di ritornismo anche se, innegabilmente, anche loro sono stati perseguitati e cacciati non duemila anni fa, ma una generazione fa.
Direi che a queste parole del tardo Oz risponde Mahmud Darwish:
“Voi (israeliani) avete creato il nostro esilio, non siamo stati noi a creare il vostro.” (Con la lingua dell’altro, Intervista con Francesca Gorgoni, 2023)
Leggo, con un certo imbarazzo quest’ultima lezione di uno dei miei scrittori preferiti, e ho la sensazione di non riconoscerlo.
Come reagirebbe oggi di fronte all’orrore che Israele è diventata dopo la sua morte? Se non avessi letto questa infelice ultima lezione saprei cosa rispondere a questa domanda, ma ora mi sembra di non sapere più niente.
Gad Lerner ha pubblicato con Feltrinelli un libro che ha come titolo: GAZA. (Gad Lerner: Gaza, Feltrinelli, 2024). E’ una testimonianza sofferta, e il libro parte proprio dallo sconcerto con cui vive il disastro di questo ultimo anno quella parte della comunità ebraica che non ha rotto il legame intellettuale con la storia della diaspora. Guardando indietro, Lerner scrive:
“Yeshayahu Leibowitz, uno dei più illustri pensatori religiosi del ventesimo secolo: Il ritiro unilaterale dai territori occupati è l’unico modo che Israele ha per evitare il suicidio morale. Aveva ragione, ma la storia andò diversamente.” (118)
La componente nazionalista e militarista ha preso il sopravvento, e poco alla volta se ne sono andati quei cittadini israeliani che non accettano di vivere in mezzo a tanta violenza.
“Il fanatismo che si è diffuso come una pianta infestante nella società israeliana non è solamente frutto della fede religiosa. Accomuna con la sua ossessione per la difesa dell’identità laici e credenti……
Il loro credo è la patria ebraica. Israele non può esistere se non come patria ebraica. Se altri vogliono vivere qui come minoranze, si adeguino.
A questo postulato segue necessariamente un corollario: non può esservi altra patria che Israele per gli ebrei. …
Al fondatore del cosiddetto sionismo revisionista, Vladimir Jabotinsky, che in polemica con David Ben Gurion perseguiva la nascita di uno stato esclusivamente ebraico, ragion per cui avrebbe voluto erigere un muro di ferro tra sé e i suoi vicini, viene attribuita una raccomandazione rimasta proverbiale: eliminate la diaspora, o la diaspora eliminerà voi.” (38)
Oggi, dopo Gaza, quell’avvertimento va ripensato. Mentre gli israeliani, seppur profondamente divisi su molte cose, sembrano in larga maggioranza condividere lo sterminio, la diaspora appare molto più divisa.
Se pensiamo agli ebrei che vivono in America vediamo che una parte di loro (non so dire se maggioritaria) ha posizioni apertamente genocidarie, al punto da identificarsi politicamente con i razzisti evangelici seguaci di MAGA.
Ma abbiamo visto anche una folla di ebrei newyorchesi esporre lo striscione Not in our name sulla statua della libertà, e abbiamo visto una partecipazione di numerosi giovani ebrei alle proteste studentesche nei campus occupati contro il genocidio israeliano.
Lerner ci ricorda che in un’intervista a La Repubblica di qualche anno fa, Netanyahu aveva espresso senza infingimenti e con assoluto cinismo la linea di condotta morale e politica che ha guidato Israele negli ultimi venti anni.
“La storia è imparziale e non perdona. Non favorisce i virtuosi, chi ha una superiorità morale. Se vogliamo proteggere i nostri valori i nostri diritti le nostre libertà dobbiamo essere forti. La lezione che ci viene dal passato è che la superiorità morale non garantisce la sopravvivenza della nostra civilizzazione” (68-9)
Queste parole sono inequivocabili: nella storia non c’è spazio per il rispetto dell’altro, e se vogliamo sopravvivere dobbiamo ignorare ogni umanità, ogni pietà. La superiorità morale non garantisce la sopravvivenza della nostra civilizzazione. Ma allora che civilizzazione è mai questa, mi viene da chiedere, se la sua sopravvivenza dipende dalla forza, dalla superiorità militare, dalla prepotenza e dallo sterminio?
Dalla lettura del libro di Lerner rimane senza risposta la domanda che riguarda il diritto di Israele a esistere. O piuttosto il diritto di Israele a nascere come è nata, attraverso un massacro e una deportazione. Di fronte a questa domanda Gad Lerner si ferma, perché (come non capirlo) riconosce che gli ebrei che si rifugiarono in Palestina negli anni trenta e quaranta non avevano altra possibilità di sopravvivere che quella.
Ma era necessario costituire uno stato nazionale, ripercorrere la storia passata d’Europa che è fondata sulla guerra la sopraffazione, il dominio del più forte che dura fin quando l’oppresso diviene più forte dell’oppressore?
Ricordando Zeev Sternhell, Gad Lerner riconosce che “particolarismo e antirazionalismo sono oggi nuovamente alla base di un pericolo di guerra mondiale.” (Lerner, 218)
Qui siamo. Sul bordo di questo abisso, e non si vede come potremo evitarlo. Non era possibile sperimentare una forma di convivenza egualitaria con coloro che abitavano quel territorio? Domande oziose, dico a me stesso.
L’internazionalismo non ha avuto la forza per imporsi, né in Palestina né altrove. Perciò la violenza è la sola maniera perché i popoli possano sopravvivere: occorre dotarsi di uno stato nazionale, di un esercito e del cinismo necessario per imporre la sola legge che conta, che è quella della forza. Oggi la legge della forza permette agli israeliani di sterminare i palestinesi, ma domani? Chi sarà domani lo sterminatore e chi lo sterminato?
Occorre chinare il capo davanti alla lezione della storia?
Oppure occorre disertare la storia, andarsene da questo incubo senza fantasia, questa catena di vendette dove amicizia è parola per poveri illusi?
Anche se non sappiamo come sia possibile la diserzione, né quale sia la strada che porta fuori da questa litania dell’orrore, non è forse questa la sola questione di cui valga la pena occuparsi?
DISERTATE, edizioni Timeo, 2023