suicidi eccellenti nella Silicon Valley
Un articolo di Pino Nicolosi, Rattus: La proprietà aperta e i suoi nemici
Suchir Balaji, un programmatore informatico 26enne di origine indiana è stato trovato morto nel suo appartamento di San Francisco.
Si parla di suicidio, ma non ci sono rivendicazioni, biglietti, e neppure motivazioni.
E' stato ucciso? E da chi? Può trattarsi di un banale incidente? Oppure Suchir è stato ucciso per le sue posizioni di dissidente che lo avevano portato a licenziarsi dall'azienda OpenAI ChatGPT?
Un articolo del New York Times illustra la questione:
https://www.nytimes.com/2024/10/23/technology/openai-copyright-law.html
In sintesi, secondo Balaji:
"The technology violates the law, Mr. Balaji argued, because in many cases it directly competes with the copyrighted works it learned from. Generative models are designed to imitate online data, he said, so they can substitute for “basically anything” on the internet, from news stories to online forums.
The larger problem, he said, is that as A.I. technologies replace existing internet services, they are generating false and sometimes completely made-up information — what researchers call “hallucinations.” The internet, he said, is changing for the worse."
La madre di Suchir nega con forza che il figlio possa essersi suicidato.
Occorre ricordare che Suchir aveva lavorato per OpenAI, poi si era licenziato dopo avere scritto un testo sulle questioni legali e etiche.
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Pino Nicolosi ha scritto un testo che illumina la questione. Ve lo propongo:
La proprietà aperta e i suoi nemici: suicidi eccellenti nella Silicon Valley
Di Rattus Norvegicus
Considero il recente (presunto) suicidio del programmatore indiano ventiseienne Suchir Balaji, un giovane che aveva alle spalle quattro anni di lavoro presso il centro di ricerca di OpenAI, un evento di una tale gravità da richiedere un ripensamento in merito al ruolo svolto dalla proprietà intellettuale negli ultimi quarant’anni, sia all’interno della produzione informatica e di rete sia, più in generale, nell’ambito dei complessi rapporti che questa peculiare forma di proprietà privata ha stabilito con la libertà di opinione, con il diritto di accesso all’educazione e alla formazione, con la cooperazione internazionale allo sviluppo e, per estensione, con tutti i principali pilastri del diritto nelle democrazie liberali, quelli che i paladini del libero mercato continuano a invocare nei loro discorsi pubblici sebbene nelle realtà non se ne veda più traccia da moltissimo tempo.
Partendo dalle prime proteste dei movimenti "no copyright" degli anni Novanta, fino ad arrivare alle attuali rimostranze contro la violazione, da parte dell'intelligenza artificiale generativa (LLM), delle leggi americane sul fair use, abbiamo assistito a un progressivo attenuarsi dei motivi polemici contro queste leggi. Da posizioni che si schieravano radicalmente contro la proprietà intellettuale, siamo passati a un atteggiamento sostanzialmente inverso: un pieno riconoscimento delle leggi di tutela del copyright, accompagnato dalla veemente denuncia delle loro violazioni effettuate dalle Big Tech. Come vedremo alla fine dell’articolo, è da quest’ultima posizione che Balaji aveva mosso la sua critica, rigorosa e puntuale, nei confronti di OpenAI.
Per una serie di strane e tristi coincidenze, ci è dato ripercorrere brevemente l'itinerario di queste oscillazioni in materia di proprietà intellettuale degli ultimi quarant'anni, a partire dalle morti di altri due autorevolissimi ricercatori informatici che, come nel caso Balaji, sono state archiviate come suicidi dall'autorità giudiziaria statunitense. Qui però non ci dedicheremo a dietrologie: il filo rosso che tiene insieme le vicende di questi tre programmatori non passa per gli eventuali (legittimi) dubbi sulle cause della loro morte, ma per il contributo che ciascuno di loro ha dato al dibattito in merito allo scopo e al senso della proprietà intellettuale nell'epoca del capitalismo delle piattaforme.
Ian Murdock (la cooperazione)
Iniziamo da Ian Murdock, 42 anni, trovato morto nel suo appartamento il 28 Dicembre del 2015 a San Francisco. Era stato arrestato due giorni prima del tragico ritrovamento, per aver dato violentemente in escandescenze contro la porta di un'abitazione privata. L'inchiesta e l’autopsia hanno accertato che, prima e dopo l’arresto, c’erano state colluttazioni tra Murdock e gli agenti di polizia che lo avevano arrestato. Dopo i due giorni di carcere è stato rilasciato su cauzione. Si è ucciso la notte successiva al suo rilascio.
Murdock viene ricordato soprattutto per essere stato l'ideatore e il fondatore, nei primi anni Novanta, di una delle più celebri distribuzioni del sistema operativo GNU/Linux. La distro, che si chiama Debian (da Ian, il suo nome, unito a quello di Debra, la sua compagna di allora), è ancora molto attiva ed è probabilmente l'unica rimasta fedele ai principi originali del software libero. Lo scopo di Murdock era quello di «creare una distribuzione non commerciale che sia in grado di competere effettivamente sul libero mercato.» Obiettivo raggiunto, anche grazie alla stretta collaborazione che Debian stabilì con la Free Software Foundation. (La citazione tra virgolette è tratta dal "manifesto Debian" scritto da Ian Murdock nel 1994).
A rileggere oggi il manifesto di Ian, torna alla mente uno degli interrogativi più stimolanti dell'informatica di quegli anni: è possibile almeno in linea di principio, raggiungere con il software libero una qualità paragonabile a quella dei software commerciali, come conseguenza di un modello di organizzazione del lavoro più aperto ? Il successo della distro di Ian Murdock suggerisce una risposta positiva. In realtà, l’intera vicenda del software libero, con i suoi complessi risvolti legali e di mercato, costituisce uno snodo importante e irrisolto rispetto al tema della proprietà intellettuale e dei suoi rapporti con il lavoro informatico. Sebbene, a partire dai primi anni del nuovo secolo, le libertà che il “Pinguino” garantiva a programmatori e utenti siano state progressivamente ristrette e asservite agli scopi del capitalismo globalizzato, queste domande restano centrali e dovrebbero costituire le fondamenta di un antagonismo digitale nell’epoca del dominio delle grandi piattaforme digitali.
Mi si conceda una nota occasionale a questo riguardo: sebbene nessuno tra i fondatori e i pionieri del software libero avrebbe accettato di buon grado di essere definito un "comunista", è altrettanto vero che nelle posizioni originarie di questo movimento si coglieva distintamente la eco di un celebre passo di un altro "manifesto", quello di Marx ed Engels:
«il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui.»
Nella filosofia originaria del software libero ad asservire lavoro altrui sono tutti coloro che congelano a scopo di lucro un software all’interno di una licenza chiusa, impedendo in questo modo che circoli liberamente e che altri programmatori possano migliorarlo e modificarlo per i loro scopi. Questo il senso generale del cosiddetto “copyleft”, la licenza ideata da Richard Stallman in cui, contrariamente a quanto avviene nel copyright, solo alcuni dei diritti degli autori restano riservati, mentre vengono garantiti nuovi diritti alla circolazione del software.
La nota marxiana che alcuni avvertivano nelle regole legali del software libero, non solo sfuggiva del tutto ai suoi fondatori, ma veniva spesso ignorata anche dai marxisti che, per lo più, se ne sono rimasti “in finestra” a guardare lo spettacolo. A cogliere immediatamente la sua eco furono invece i robber baron del digitale, che non tardarono ad accusare di comunismo l'intera comunità di Gnu/Linux. Basti ricordare le celebri parole pronunciate nel 2000 da Steve Ballmer, all'epoca braccio destro di Bill Gates:
«Linux è un competitor agguerrito. Non c’è alcuna azienda che si chiama Linux, e a malapena Linux ha una road map. Eppure Linux sembra sprigionarsi naturalmente dalla Terra. E ha le caratteristiche del comunismo che alla gente piacciono moltissimo, cioè è gratuito. Per noi è un fronte di competizione vero».
In realtà il software libero, pur ammettendo pienamente il diritto dei programmatori a ricavare denaro dalle loro attività, riusciva a contenere notevolmente i profitti parossistici che le grandi holding avevano iniziato ad accumulare a danno del loro lavoro. Svolgeva, insomma, sia pure indirettamente e in modo molto originale, una funzione di carattere “sindacale”. L’esistenza di organizzazioni informatiche non ossessionate, nel loro lavoro, dai diritti di proprietà sui propri prodotti, scatenava in Ballmer e negli altri gigacapitalisti, il terrore di una continua critica politica al loro operato, oltre a quello di una caduta dei profitti provocata dalla circolazione di prodotti in larga parte gratuiti e di libero accesso. Soprattutto, nel caso delle prime licenze copyleft, creava una serie di delicati problemi al "controllo" dell'innovazione informatica esercitato dai potentati dell’informatica proprietaria. Problemi “salutari” perché aprivano spazi di innovazione fino a quel momento impensabili per le società a capitalismo avanzato. Concepire un'informatica sociale, finalizzata a scopi alternativi rispetto a quelli del profitto, è stato possibile soltanto nel periodo "aureo" del software libero, nella seconda metà degli anni Novanta, quando le licenze di Richard Stallman lasciavano ampi margini di possibilità all’ipotesi che programmi informatici finalizzati a scopi alternativi a quelli della filosofia neo-liberale, fossero non solo perfettamente concepibili, ma del tutto alla portata dell'intelligenza collettiva. Oggi, la Microsoft è diventata proprietaria dei principali siti di scambio di software open source e ogni velleità in direzione di un’informatica alternativa nei contenuti e negli obiettivi, sembra essersi infranta davanti al muro dell’interesse privato. I marxisti alla finestra ne sono quasi compiaciuti: “Avete visto?” ci gridano sventolando in aria Miseria della filosofia, “il vostro cooperativismo proudhoniano ha fatto la fine che meritava”.
Il fatto che nel suo "manifesto Debian" Ian Murdock avesse sottolineato i vantaggi del metodo cooperativo nello sviluppo del sistema, denunciando come le avventure commerciali in solitaria di alcune delle prime distribuzioni rischiassero di danneggiare l'immagine e la qualità di GNU/Linux, aiuta a comprendere quanto delicato fosse quel passaggio. Nell'approccio di Murdock l'indipendenza e l'autonomia economica dei programmatori era un pre-requisito essenziale per ottenere prodotti di livello tale a da poter competere con quelli di carattere commerciale. Era una scommessa difficile e non sorprende che, sul piano politico, sia stata persa, probabilmente in modo definitivo. Né stupisce che l’unica area di ispirazione marxiana che seppe cogliere alcuni elementi delle potenzialità di conflitto inscritte nel software libero sia stata quella operaista. Non solo perché attenta al lavoro cognitivo e ai processi di estrazione del suo valore, ma anche perché memore delle sette tesi sul controllo operaio di Panzieri e Libertini e, più in generale, del ruolo dei consigli operai nelle esperienze di autogestione del lavoro di fabbrica degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento italiano. Quell’antica ricerca di autonomia dei lavoratori oggi traspare, nell’ambito del cosiddetto neo-operaismo italiano, nella richiesta politica di un reddito di base universale e incondizionato, pensato anche come una forma di “liberazione” del lavoro cognitivo, inteso come intelligenza “libera” non asservita ai diktat delle necessità di sopravvivenza.
Intermezzo
Sarà senz’altro utile, a questo punto, avventurarsi in una breve digressione filosofica. Nel suo celebre libello Miseria dello storicismo il filosofo della scienza Karl Popper rimproverò esplicitamente ai marxisti di essersi illusi che la storia fosse scientificamente prevedibile. Una critica che, personalmente, ho sempre condiviso, almeno nelle sue linee generali, senza per questo diminuire di un solo punto la mia devozione nei confronti dell’opera di Marx. Ma quando entriamo nella più importante argomentazione di Popper a sostegno di questa tesi, ci rendiamo immediatamente conto di come egli considerasse la crescita della conoscenza scientifica come la più importante delle variabili in gioco, l’unica che rende veramente imprevedibile il processo storico: non potendo in alcun modo essere informati sullo stato della conoscenza scientifica tra dieci o vent’anni, noi non possiamo avere un'idea, neanche approssimativa, di quella che sarà la società del futuro. Deriva principalmente da questa osservazione la convinzione di Popper secondo la quale lo storicismo è destinato a fallire regolarmente nelle sue previsioni. Il mio parere, per quel che vale, è che su questo aveva perfettamente ragione: non esistono leggi generali della storia. L'imbarazzante corollario politico di un siffatto argomento, tuttavia, è quello che la modalità più importante di esercizio del potere, nella nostra epoca, consiste nel controllo assoluto della produzione scientifica, tecnica e culturale. Solo gestendo dall’alto e con polso fermo la ricerca scientifica, l’innovazione tecnologica e la circolazione dei saperi, il capitalismo può garantire i suoi sviluppi sociali ed economici senza andare incontro a conseguenze storico-politiche indesiderate. Quello della previsione scientifica non è, dunque, soltanto un limite dell’utopismo politico, ma anche la principale ossessione del realismo capitalista. Questo imbarazzante corollario sir Karl non l’ha discusso nel suo librettino anticomunista, ma probabilmente lo avrà rivelato in privato al suo amico Von Hayek, grande teorico e stratega dell’economia neoliberista.
Il controllo dell’accesso alla conoscenza, in questa cornice teorica, è divenuto immediatamente una faccenda politica e la ricerca di una strategia adeguata per raggiungerlo si è risolta in una regolamentazione molto rigida della proprietà intellettuale e in una sua gestione esclusiva da parte delle principali organizzazioni capitalistiche. La recente notizia che ben due premi Nobel, nel 2024, sono stati assegnati a studiosi che lavorano (o lavoravano) presso Google, la dice lunga sul punto a cui è giunta la privatizzazione della ricerca e il tentativo di ostacolare sistematicamente ogni forma di circolazione libera del sapere e della conoscenza. La “società aperta” di Popper ha soffocato sistematicamente qualsiasi forma di proprietà aperta nell’ambito del lavoro intellettuale. Non posso fare a meno di chiedermi cosa penserebbe oggi il grande filosofo della scienza, se fosse vivo, delle illuminanti osservazioni che ho estratto da un’intervista di un paio di anni fa ad un giovane studioso ungherese esperto di leggi sulla circolazione dell'informazione libraria che si chiama Bodo Belasz. Bodo lavora attualmente all'università di Amsterdam. Le prime domande dell'intervista vertono sull'arresto in Argentina di due giovani russi, creatori di un importante sito di copie pirata di libri che si chiamava Z-Library. Bodo, che sulla Russia la sa lunga, faceva una nel merito una serie di considerazioni che meritano di essere riportate per intero:
«Quando ho letto la notizia che questi due individui russi sono stati arrestati, ho pensato, beh, la storia ha chiuso il cerchio. Non conosco queste persone, quanti anni hanno, presumo siano sulla trentina. Ma certamente, i loro genitori o i loro nonni potrebbero essere stati o avrebbero potuto facilmente essere arrestati dalle autorità sovietiche per aver condiviso libri che non avrebbero dovuto condividere. E ora, 30 anni dopo la caduta del muro di Berlino, le persone vengono nuovamente detenute per aver condiviso libri. Per un motivo diverso, ma è la stessa minaccia: 'Perderai la tua libertà se condividi la conoscenza'.
La libertà di accedere e condividere la conoscenza è stata una delle ragioni per cui le persone erano disposte a rischiare la vita prima degli anni '90 nell'Europa centrale e orientale. Le persone rischiavano di andare in prigione, perdere il lavoro, i mezzi di sussistenza e talvolta la vita perché volevano sapere e condividere la conoscenza scrivendo samizdat, stampando e distribuendo edizioni samizdat tra cui quelle di libri occidentali vietati. E ora il sistema politico occidentale o liberale o democratico sta incarcerando persone per - in superficie - atti molto simili. La storia del diritto d'autore (il controllo del flusso della conoscenza attraverso i diritti economici esclusivi degli autori) e la storia della censura (il controllo dello stesso flusso dovuto a considerazioni politiche) sono state strettamente intrecciate fin dall'inizio e, a quanto pare, a volte è difficile districarli ancora oggi».
Come profetizzò Franco Berardi in un librettino del 1991 intitolato Politiche della mutazione, al crollo politico dell’impero del male ha fatto seguito il trionfo dell’impero del peggio.
“La proprietà aperta e i suoi nemici” potrebbe essere il titolo di un lavoro filosofico, dedicato al ricordo di Karl Popper, che si proponga di approfondire, in un quadro generale, aperto anche ai problemi dell’innovazione del software, la situazione denunciata da Bodo in quell’intervista.
Aroon Swartz (la condivisione)
Situazione che ci porta ad un secondo drammatico suicidio avvenuto nel pantheon dell' informatica d'eccellenza: quello del giovane e celebre programmatore Aroon Swartz, avvenuto a New York l'undici Gennaio del 2013. Un episodio che, per una serie di ragioni, ha avuto una risonanza maggiore di quello di Murdock. Al di là della notorietà di Aroon, il nesso tra le posizioni politiche di Swartz e la sua decisione di farla finita è, in questo caso, di evidenza palmare. Il ragazzo era stato condannato definitivamente a una multa di un milione di dollari e a trent’anni di carcere, per aver scaricato illegalmente, presso un server del MIT, un cospicuo quantitativo di documentazione scientifica sotto tutela che, presumibilmente, intendeva distribuire gratuitamente in rete.
La sua decisione di promuovere la diffusione libera della conoscenza, anche in modo illegale, l'aveva annunciata apertamente in un documento scritto in Italia, ad Eramo, il "Guerrilla Open Access Manifesto". Terzo e ultimo manifesto della nostra serie. Mentre sto scrivendo il calendario segna il dodicesimo anniversario della morte di Swartz. Approfitto dell'occasione per riportare qualche brano di quel suo illuminante scritto:
«L’informazione è potere. Ma come con ogni tipo di potere, ci sono quelli che se ne vogliono impadronire. L’intero patrimonio scientifico e culturale, pubblicato nel corso dei secoli in libri e riviste, è sempre più digitalizzato e tenuto sotto chiave da una manciata di società private.(…)
Questo è un prezzo troppo alto da pagare. Forzare i ricercatori a pagare per leggere il lavoro dei loro colleghi? Scansionare intere biblioteche, ma consentire solo alla gente che lavora per Google di leggerne i libri? Fornire articoli scientifici alle università d’élite del Primo Mondo, ma non ai bambini del Sud del Mondo? Tutto ciò è oltraggioso ed inaccettabile.»
E' stato sostenuto, non senza buone ragioni, che il manifesto di Eramo è la vera ragione della pena "esemplare" che i giudici americani hanno deciso di infliggere ad Araoon. Quella che lo ha spinto al suicidio. Una pena feroce, che non ha tenuto in minimo conto le ragioni etiche che lo avevano motivato nel compiere quella operazione di "bracconaggio". Una condanna politica, che ci sollecita a interrogarci ancora una volta su cosa vi sia di così inevitabile e necessario nella gestione proibitiva ed esclusiva delle conoscenze scientifiche e culturali. Si noti: mentre Mark Zucherberg, qualche giorno fa, ha fatto pubblica ammenda in un video, dichiarandosi pentito di aver limitato la possibilità di insultare pubblicamente le donne e la gente di colore su Facebook e sostenendo, col capo cosparso di cenere, di avere in tal modo ingiustamente ostacolato la libertà di parola, nessuno degli attuali gigacapitalisti si sogna di fare pubblica ammenda per aver impedito la libertà d'accesso al patrimonio scientifico e librario ai paesi in via di sviluppo. Anzi, le associazioni degli editori stanno intentando odiose cause legali contro fondazioni benemerite della cultura aperta come l'Internet Archive, una delle più prestigiose e storiche istituzione della rete, per aver concesso ai cittadini segregati durante l'emergenza pandemica lo scaricamento di qualche centinaio di libri sotto copyright.
Diciamocelo francamente, il liberalismo neoconservatore della libertà di parola ha due tipi di cultori: gli imbecilli e quelli in perfetta malafede. I primi semplicemente non capiscono che questa presunta libertà di parola nei social li sta sprofondando nella più perfetta ignoranza, i secondi lo sanno benissimo, e incassano cinicamente i vantaggi politici che ne derivano.
Suchir Balaji (la contraddizione)
Queste considerazioni ci portano all'ultimo dei tre suicidi che ho deciso di portare all'attenzione dei lettori. Quello di Suchir Balalji, avvenuto il 26 Novembre 2024 a San Francisco. Sono stati espressi molti fondati dubbi sul fatto che si sia realmente trattato di un suicidio. Tuttavia, qui ci occuperemo soltanto delle forme di protesta che Suchir stava promuovendo nel periodo precedente la sua morte. Quando, dopo che si era licenziato da OpenAI, aveva rilasciato un'intervista al New York Times in cui denunciava la violazione da parte di chatGPT dei diritti degli autori degli innumerevoli testi che quell’orribile software, autentica scimmia del general intellect marxiano, ingurgita nel corso delle fasi del suo addestramento. Dunque, nel caso di Suchir, non vi è traccia di obiezioni alle leggi sul copyright. Suchir, al contrario, ha sviluppato il suo ragionamento a partire da quelle leggi, particolarmente quella sul fair use, per sostenere la tesi che ChatGPT è concepito per violarle in modo regolare e sistematico. Secondo Suchir Balaji la violazione della legge sul fair use da parte di ChatGPT è, per così dire, un suo tratto strutturale, intrinseco al suo funzionamento ordinario. Sul suo sito personale Suchir ci ha lasciato alcune pagine illuminanti in cui mostra con chiarezza come il funzionamento di questo LLM sia fondato sulla copia del contenuto di testi sotto tutela (prelevati dentro e fuori della rete). Provo di seguito a fornirne un breve e pedestre riassunto del suo pregevolissimo lavoro. Spero, almeno, di facile comprensione: questi testi copiati vengono inizialmente “mescolati” a quelli sul medesimo argomento. Progressivamente, tuttavia, soprattutto grazie all’addestramento finale basato su rinforzo, effettuato da operatori umani, ChatGPT riesce a contenere il “rumore”, fornendo all’utente risposte approssimative ma, per l’essenziale, fondate sul contenuto originario dei testi che ha copiato. A pensarci bene, le cose non potrebbero andare diversamente,visto che si tratta di un dispositivo che tenta di contenere, attraverso approssimazioni statistiche, l’entropia intrinseca che caratterizza i sistemi di calcolo automatico.
Di qui la principale accusa mossa da Suchir ad OpenAI, quella di fare una concorrenza illegale e sleale ad altre attività intellettuali retribuite che si svolgono regolarmente su web o in altri contesti. La sua argomentazione è quindi centrata sulla difesa di un'idea di libero mercato "sano", contro la progressiva concentrazione di potere e conoscenza orchestrata dalle grandi holding dell’AI.
Una prima considerazione da fare va nella direzione del classico "due pesi due misure":
in nome delle tutela del copyright, la giustizia non si è fatta scrupoli quando si è trattato di spingere al suicidio un giovane talento come Aroon Swartz, condannandolo a una pena draconiana, oppure quando ha deciso di portare in tribunale Internet Archive. Ma quella stessa giustizia dimentica di fare qualsiasi tipo di obiezione legale all’uso di testi protetti dalla legge, quando ad effettuare quelle violazioni sono le grandi e potentissime holding dell’intelligenza artificiale. E questo è un argomento sacrosanto, che trova ampio riscontro nel lavoro di ricerca pubblicato da Suchir sul suo sito.
C’è tuttavia, una seconda osservazione da fare: quella che rimane interamente da chiarire perché i testi protetti da copyright dovrebbero detenere tutele maggiori rispetto a quelle di cui dispone, per esempio, il testo che sto scrivendo in questo momento, o rispetto a quelle degli altri milioni di scritti che ogni giorno gli utenti riversano nella rete.
Per quale motivo, di grazia, gli spider di Chat-GPT dovrebbero essere autorizzati a prelevare senza problemi la sterminata massa di materiale testuale prodotta dagli utenti, ma dovrebbero invece fermarsi di fronte a lavori protetti legalmente da regole di libero mercato ?
Chi garantisce, se non dei tecnicismi economici di dubbia verificabilità empirica che, poniamo, gli autori degli articoli di Neurogreen generano valore di mero uso, mentre quelli di Vogueautentico e purissimo valore di scambio ? Non c’è nessuno che possa dimostrare, in linea di principio, che il testo che state leggendo non abbia altrettanto diritto di essere tutelato dagli abusi di ChatGPT, né che esso contribuisca “meno” alle risposte che l’oracolo di OpenAI un giorno scodellerà a qualche ignaro utente, di quanto possa contribuirvi un elzeviro di Vittorio Feltri dedicato all’ultimo atroce discorso di Valditara. Dal fatto che un lavoro sia pagato non deriva automaticamente che sia anche più produttivo ai fini di ChatGPT.